25 anni fa era il suo onomastico e, anche un po’ la sua festa, papà non lo era, ma padre sì… Don Peppe Diana. Fu ucciso da un camorrista alle 7.20 del 19 marzo 1994 mentre si accingeva a celebrare la santa messa.
I cinque proiettili che lo colpirono – due alla testa, uno al volto, uno alla mano e uno al collo – dovettero risuonare molto nella sagrestia ancora vuota della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, il suo paese natale.Dovettero risuonare, però, anche gli ingranaggi della macchina del fango che subito – sin dall’inizio del processo – si attivò.
“Don Peppe Diana era un camorrista” si lesse sul Corriere di Caserta. Si disse che Di falco (difeso dall’allora presidente della commissione Giustizia della Camera,Gaetano Pecorella, e poi condannato in primo grado all’ergastolo il 30 gennaio 2003) ne ordinò l’omicidio perché custodiva l’arsenale dei Casalesi. O, ancora, “Don Diana a letto con due donne”. Si cercò di portare avanti il movente passionale. Senza neanche bisogno di parole, ma con l’arma delle allusioni si piazzò in prima pagina una foto del sacerdote ritratto mentre abbracciava due ragazzine. Erano due scout, di quelle che lo seguivano nel suo impegno come assistente del settore Foulards Bianchi.
La marcia a Casal di Principe
Quelle ragazzine erano, forse, le mamme o le zie di qualcuno tra i 7.000 scout dell’Agesci scesi per le strade di Casal di Principe il 16 e il 17 marzo per ricordare la morte di Don Peppino, ma soprattutto il suo sogno.”Il tuo sogno, la nostra frontiera” è stato infatti il titolo della marcia che si è svolta in tre tappe: prima in via Garibaldi, sotto la sua vecchia casa dal cui balcone – come ogni anno – si è affacciata in lacrime Iolanda di Tella, la madre; poi alla chiesa dove la sua vita su spezzata, infine al cimitero dove ora Don Diana riposa.
I canti dei ragazzi scout e una messa officiata dal Cardinale Sepe, dal vescovo di Aversa e tantissimi altri sacerdoti hanno concluso la giornata. Ma oggi, 19 febbraio, venticinquesimo anniversario dalla sua morte, altre migliaia di persone sono attese in città per tante manifestazioni che cominceranno alle 7,30 del mattino.
Il manifesto contro la camorra
Don Peppino quando fu ucciso non aveva ancora compiuto 36 anni. Nel Natale del 1991, quando di anni ne aveva 33 come Cristo, diffuse in tutte le chiese di Casal di Principe un documento dal titolo: “Per amore del mio popolo”. Quello scritto, che è anche il suo più famoso, era un vero e proprio manifesto dell’impegno contro il sistema criminale.
Alla voce “Precise responsabilità politiche” si può leggere: “È oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. (…) Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili”.
Negli anni del dominio assoluto della camorra casalese, legata principalmente al boss Francesco Schiavone, detto Sandokan, Don Diana fu senza dubbio un modello di comportamento alternativo che – suo malgrado – ci mise un po’ per apparire credibile. I dubbi e i sospetti sulle cause della sua morte – grazie a una cronaca velina delle parole dei collaboratori di giustizia – coprirono le sue parole e il suo impegno.
Quel suo manifesto contro il totalitarismo della camorra, però, si concludeva con un appello teso a stravolgere questa piaga sul piano cristiano (da uomo di Dio), ma anche culturale, politico ed economico. Quell’appello aveva un titolo: “NON UNA CONCLUSIONE: MA UN INIZIO”.
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