A partire dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, l’inchiesta dei pm Alessandra Converso e Ida Teresi sotto il coordinamento dell’aggiunto Giuseppe Borrelli, ha smascherato l’esistenza di «un sistema collaudato» per la compravendita fraudolenta dell’abilitazione alla professione forense. La magistratura ha utilizzato mezzi di indagine come il trojan introdotto in un cellulare, ma anche attività di pedinamento o i rilievi del gps piazzato in uno scooter.
A dare slancio alle indagini un genitore che dice di aver versato quattromila euro a «quelli della banda bassotti». Lamentandosi poi di non aver ricevuto l’aiuto giusto, dal momento che il figlio viene comunque bocciato all’esame di abilitazione. Ne nasce una discussione in cui alcuni intermediari fanno capire che la bocciatura è avvenuta perché il ragazzo si «è messo a fare di testa propria». Le intercettazioni hanno spinto i pm a ordinare il sequestro delle prove scritte consegnate a dicembre del 2017.
Oltre al genitore deluso e all’aspirante avvocato, finiscono sotto inchiesta due dipendenti del Palazzo di Giustizia. Uno di questi era al vertice dello staff che si occupava della gestione esami. Dunque aveva facoltà di entrare e uscire dalle sale della Mostra d’Oltremare dopo l’apertura delle buste con le tracce. Stando all’analisi delle intercettazioni, la procedura prevedeva il versamento di una tangente in denaro o in altri beni agli intermediari, che poi avrebbero fornito le soluzioni della prova al candidato.
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