Beckett arriva alla Sanità. Ieri al Nuovo Teatro Sanità la prima di “Primo amore – Atto senza parole I & II”. Ecco la nostra recensione dello spettacolo.
Ieri sera al Teatro Nuovo Sanità è andata in scena la prima di “Primo amore – Atto senza parole I & II”, una pièce composita, nata dall’associazione di tre opere di Samuel Beckett. Lo spettacolo, messo in scena da Sergio Longobardi e Costantino Raimondi, con la regia dello stesso Raimondi, racchiude in sé i semi del pensiero dell’autore irlandese.
L’opera, già portata in scena al “Napoli Teatro Festival”, questa volta viene rappresentata al Nuovo Teatro Sanità, un teatro che si è posto un obiettivo civico e sociale molto significativo, soprattutto per i giovani del rione, seguendo le orme del Nest di San Giovanni a Teduccio.
Per questo spettacolo, ci si è avvalsi di un set davvero particolare. Piccola e raccolta, la struttura che ospita il teatro fa parte della chiesa dell’Immacolata e San Vincenzo, risalente al XVIII secolo. Non appena le porte della sala si aprono, si è accolti in una penombra che caratterizzerà l’intera rappresentazione. L’ambiente accogliente e raccolto, i marmi, le raffigurazioni pittoriche, la vicinanza del pubblico al palco rendono l’atmosfera suggestiva.
Raimondi e Beckett: 3 in 1
Molto interessante la scelta artistica di Raimondi, che decide di mettere in scena una sorta di pièce in tre tempi. Questa non è composta dai classici tre atti di un’unica rappresentazione, ma racchiude in sé tre opere di Beckett: un racconto lungo, precursore della drammaturgia beckettiana, e due opere in atti singoli. Solo un minuto di buio e silenzio – forse anche meno – a segnalare il passaggio dalla parola, tagliente, abbondante, ma schizzofrenica, del primo atto, alla totale assenza della stessa nei due successivi.
Se con la sua tragicommedia dell’attesa, “Aspettando Godot” (1952), Beckett esprime alla perfezione l’idea del silenzio come unica forma accettabile di comunicazione, “Primo Amore” – scritto nel 1946, ma pubblicato solo venticinque anni dopo – già manifesta l’inquietudine beckettiana che culmina, nello spettacolo di Raimondi, in “Atto senza parole I & II” (1956).
In “Primo Amore”, il protagonista viene coinvolto in un percorso quasi onirico. Attraverso riflessioni dirette e disincantate, lo seguiamo nel suo viaggio mentale, dal ricordo della morte del padre a quello dell’amore. Un amore confuso, distante, discontinuo. Contemporaneo. A seguire, i due atti unici senza parole, nei quali regna la comunicazione non-verbale. Nel primo, il protagonista, solo in un deserto con una luce accecante, si arrende alla tragicità della vita; nel secondo, i due personaggi, simili ma distanti, sono opposti l’uno all’altro.
Il flusso di parola al Nuovo Teatro Sanità
Si potrebbe dire che l’attesa cominci già prima dell’inizio del monologo. Niente entrata per l’attore (Sergio Longobardi), il quale si trova già sul palco, in penombra, attendendo gli spettatori silenziosamente.
Il pubblico si sta ancora accomodando sulle poltrone, quando l’illuminazione si affievolisce, e dal centro del palco si levano suoni sconnessi. Il protagonista balbetta sillabe confuse. Poi, con un faticosissimo “associo” comincia il suo lungo e ininterrotto monologo. Un flusso frenetico di parole che ipnotizza il pubblico, talvolta con immagini dissacranti e spiazzanti.
Il monologo è strutturato attraverso un’assurda rete di connessioni. La morte del padre, l’allontanamento dalla casa, l’incontro con Lulù, il ritiro in una stalla. Tutto viene gettato fuori, con violenta follia, dal protagonista, in un susseguirsi di immagini e riflessioni senza filtri, in cui trovano posto momenti di pragmatica verità, ma anche visioni oniriche. Il teatro dell’assurdo è anche questo: l’abbandono del linguaggio logico-sequenziale, il racconto di una successione – talvolta paradossale – di eventi legati tra loro da battute serrate e mordaci, capaci di far sorridere nonostante la tragicità del dramma.
La scarnificazione di Beckett
Il linguaggio è spoglio, pragmatico, espressione di una visione disincantata della realtà. L’azione è ridotta al minimo: non esiste movimento sulla scena che non sia dato dalla mimica dell’attore e dalla frenesia della parola. Il tutto caratterizzato da umorismo contemporaneo e una buona dose di cinismo.
Nella sua interpretazione, Longobardi si affida molto alla mimica facciale e alla gestualità – a tratti molto (troppo, forse) accentuata. La natura del racconto-monologo del primo atto impone ritmi serrati e assenza di interruzioni nel flusso di parole. Purtroppo, però, alcuni momenti di incertezza nell’oratoria e piccole disattenzioni nel discorso hanno causato brevi intoppi, rallentandone a tratti la comunicazione. Imperfezioni che, comunque, non sembrano aver condizionato il pubblico.
La scenografia è scarnificata. Ridotta al minimo, nel primo atto essa consiste in un piccolo sgabello cubico, sul quale Longobardi resta seduto. A volte unica fonte di luce durante il monologo, lo sgabello produce un’alternanza di colori associata al cambiamento di tematica e di emozione. Anche le emozioni sembrano scarnificate, disordinate, confuse. Momenti più tristi, con riflessioni piuttosto cupe, si alternano a soggetti più “lieti” – ma saranno davvero gioiosi? – che vengono annunciati con grande eccitazione.
“Il torto che abbiamo è dare parola alle persone”
Uno di questi momenti sembra l’amore. Forse. In realtà, si tratta di una storia che assume tratti grotteschi e singolari. Un amore che, proprio come tutto il resto della pièce, subisce la scarnificazione. Anche linguistica, se vogliamo, quando il protagonista decide di cambiare il nome dell’’amata’ Lulù con un altro che contenga una sola sillaba.
La relazione che lega i due può dirsi iconica, poiché anticipa il grande problema di comunicazione dell’essere umano contemporaneo. “Mi chiese se volevo che cantasse qualcosa; le dissi che volevo che mi dicesse qualcosa”. Ma avrà davvero qualcosa da dire?
Il protagonista intende il dolore come l’incapacità di sentire, provare, vivere. Confessa dal palco che, quando non si è sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o alcol, “non si sente nulla”, il tutto “non si può esprimere”.
Atto Senza Parole I & II
Ma è nei successivi due atti dello spettacolo che viene massimamente espresso il tema della comunicazione. La scena è vuota, proprio come lo è la parola. Gli attori – Raimondi prima, Longobardi poi – affidano tutta la propria espressività alla mimica, sfociando talvolta in momenti tragicomici.
Brillante il lavoro, nel secondo atto, di Costantino Raimondi, la cui performance è stata molto più potente di un monologo recitato. Non servono parole; le parole sono inutili.
Luci ed ombre diventano essenziali nel secondo atto della pièce, poiché conferiscono quella spazialità teatrale che manca a causa dell’assenza di scenografia. Infatti, anche quella bozza di scenografia concretizzatasi nello sgabello iniziale, con i due atti senza parole scompare del tutto. Essa è riempita esclusivamente dalla gestualità e dall’espressività degli attori.
Anzi, nel secondo atto, la scenografia scardina i canoni teatrali e si sposta in sospensione sul palco. Infatti, mentre il palco riproduce una realtà desertica, tutti gli oggetti utilizzati dal protagonista restano sospesi in aria e vengono avvicinati al suolo solo se richiamati da un fischio. Ogni fischio comanda, dunque, le azioni del personaggio (interpretato da Raimondi), permettendogli di ottenere un elemento alla volta. Il protagonista, simbolo dell’uomo sconfitto, cerca sbadatamente di utilizzarli nel vano tentativo di raggiungere una caraffa d’acqua, che per lui, tuttavia, resta irraggiungibile.
Nell’ultimo atto, invece, Longobardi raggiunge Raimondi in scena. Tuttavia, due inaspettate ‘protagoniste’ di questa parte della rappresentazione sembrano le due buste di plastica, che esprimono tutta l’alienazione dell’uomo contemporaneo. I due personaggi adottano comportamenti simili, ma sono diversi, opposti, distanti. Il legame (non-verbale) tra i due esseri umani è sempre solo accennato, associato ad espressioni di vacuità e tristezza. Ognuno dei due finisce chiuso nella propria bolla, sfiorando l’altro, prima di ritornare nel suo piccolo guscio di plastica.
Perché vedere Beckett alla Sanità?
Nella sua strutturazione, questa pièce condensa in sé tutto il dramma della comunicazione contemporanea. Difficoltà di interazione, empatia e compassione, propria non soltanto del mondo raccontato da Beckett, ma segnale che riesce a raccontare qualcosa anche della nostra quotidianità.
Diplomato all’ “Ecole Internationale de Mimodrame Marcel Marceau” a Parigi, Raimondi afferma: “il mio linguaggio parte dal corpo, mezzo che esprime, attraverso il gesto, il pensiero e le emozioni, un immaginario collettivo, teatrale e contemporaneo. Lo scopo” – continua – “è recuperare la risonanza lirica attraverso il silenzio, per dare all’interprete voce, peso e densità, con un teatro di maschera e carne, pragmatico e non psicologico.”
Le prossime repliche
Quando?
Sabato 30 novembre ore 21
Domenica 1 dicembre ore 18
Dove?
Teatro Nuovo Sanità, Piazzetta San Vincenzo, 1.
Per maggiori informazioni su spettacolo e biglietti, consultate il sito ufficiale.