“Ad occhi chiusi” in scena al teatro Tram: la storia di un uomo apparentemente normale che si rivela tutt’altro, con un finale a sorpresa.
L’attore e regista Luca Pizzurro ha riportato in scena dopo dieci anni, lo spettacolo di cui è anche autore, “Ad occhi chiusi” al teatro Tram di Napoli, un monologo dal tema forte e più che mai attuale, che a distanza di tempo è riuscito ad ottenere il successo anche in terra partenopea. Una sfida, quella di Pizzurro, che è stata sicuramente vinta.
Le luci spente ed il buio creano l’attesa, quella del pubblico presente in sala. Ed ecco che una flebile luce illumina la scena. Una stanza con al centro una sedia e un tavolino, sullo sfondo un armadio, sul lato destro della stanza, un comodino che racchiude un segreto, sul lato sinistro (come quello del cuore) una zona adibita a camera oscura illuminata dalla luce inattinica rossa della lampada e un filo con tante fotografie.
Il protagonista fa il suo ingresso con aria gioviale e divertita:
“il cielo in Sicilia non è uguale a nessun altro cielo è molto più intenso, è di un azzurro talmente brillante che sembra smaltato”.
È così che inizia il monologo. Ma non siamo in Sicilia ed il sole oggi non splende anche se fa molto caldo. Bruno vive a Roma ormai da un po’, sembra essere un uomo qualunque, un po’ solitario certo ma pur sempre un uomo qualunque; di quelli che si incontrano al supermercato, al parco, o sul pianerottolo di casa. Il caffè è pronto e l’odore inebria la stanza, ama leggere ma poche pagine alla volta perché se finisse quel libro (di cui non sapremo mai il titolo) poi che cosa farebbe? Già… cosa farebbe lui che di tempo ne ha tanto? Il monologo si snoda tra il racconto della sua condizione attuale e diversi flashback che, a mano a mano, svelano la vera natura dell’uomo.
Quello che ne fuoriesce è l’identikit di un carnefice che mostra quanto folle e perversa possa essere l’animo e la mente di un “assassino”, un uomo che nella sua follia crede di sapere cos’è l’amore, di saperlo riconoscere dai segnali “ad occhi chiusi” che le sue vittime gli lanciano. Tutti sanno chi è, ma nessuno interviene, nessuno si ribella, nessuno osa sfidarlo.
Come nella vita attuale, tutti sono rinchiusi nelle proprie case, nel proprio mondo, nelle proprie vite, nei propri problemi, troppo impegnati per accorgersi (o forse no) di quello che si consuma a pochi passi. Del resto, le persone sono distratte, non ascoltano, non osservano ciò che gli accade intorno. Bruno in questo è diverso, egli fotografa le proprie vittime, le immortala, ne coglie le sfumature, ma non con la macchina fotografica, lo fa con gli occhi, quegli stessi occhi che credono di sapere ciò che è bene e ciò che non lo è, ciò che è “amore” e ciò che non lo è.
A prestare il proprio volto al carnefice è Andrea Fiorillo, un attore dotato di una profonda sensibilità ed una grande bravura. Riesce a toccare un tema tanto spinoso con un tocco di “leggerezza”, senza risultare né volgare né cruento. Gestisce l’orrore che traspare negli occhi degli spettatori quando Bruno getta la maschera e si mostra per quello che è, un essere che sembra amare ma che invece l’amore non sa cosa sia, un uomo che non si pente minimamente dei suoi delitti e che come tutti i carnefici, attribuisce la causa di un amore finito a qualcun altro.
Il suo racconto per quanto provochi ribrezzo, riesce a tenere l’attenzione degli spettatori alta fino alla fine, quando le “porte” si spalancano e gli orrori escono fuori ed il tema è svelato. Un brivido percorre tra gli spettatori, c’è incredulità, rabbia, stupore per quello che gli si para davanti, per ciò che scorre davanti ai loro occhi; uno scorrere veloce e silenzioso come la storia appena raccontata.
La bravura di un regista come Luca Pizzurro, che riesce a far trasparire attraverso l’attore ciò che voleva raccontare, una storia realmente accaduta, forte, toccante, triste, dolorosa. Un coraggio, quello del tema affrontato, che necessita di un grande impegno per essere portato in scena e raggiungere il risultato sperato.
Il Tram non poteva che essere il luogo migliore per una simile rappresentazione, come la stanza in cui si svolge il monologo, anch’esso si trova in un antico palazzo dalle mura spesse, mura silenziose che tengono lontana la curiosità dei vicini. La luce durante lo spettacolo rimane sempre bassa e ad un certo punto, quando il racconto entra nel vivido, lascia spazio alla luce di una candela; quasi a simboleggiare l’oscurità dell’anima del protagonista.
Recensione a cura di Veronica Amendola
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