Sono passati 10 anni dalla sera del 13 gennaio 2012 quando la nave Concordia alle 21.45 naufragò, mentre navigava vicinissima all’isola toscana del Giglio.
Morirono 32 persone, e altre 157 furono ferite. Una nave da decine di migliaia di tonnellate, centinaia di metri e centinaia di milioni di euro si arenò a pochi metri dalle coste di una piccola isola, rimanendoci per anni.
Al momento del varo, la Costa Concordia era la più grande nave mercantile italiana: era stata costruita dalla Fincantieri di Sestri Ponente ed era costata 450 milioni di euro.
Caratterizzata da grandi numeri che la descrivevano come una nave unica. Vuota pesava quanto 110 Boeing 747, la lunghezza dei cavi elettrici a bordo avrebbe potuto coprire cinque volte e mezza la distanza tra Roma e Milano, i rivestimenti di tek erano grandi come due campi di calcio e con le tovaglie dei ristoranti di bordo si sarebbe potuta apparecchiare una tavola di 27 km.
I ponti erano 17, di cui 13 aperti ai passeggeri. L La nave aveva 13 bar e cinque ristoranti, quattro piscine, area termale di 6mila metri quadrati, quella sport di 2mila. C’erano discoteche, cinema, teatri, sale giochi, aree per bambini, un percorso di jogging. Le cabine erano 1.500 di cui 505 con balcone, e 58 suite.
La Costa Concordia poteva ospitare 3.780 passeggeri, di 60 nazionalità diverse. Ci lavoravano 1.100 membri dell’equipaggio. La crociera di otto giorni costava, in cabina normale, 350 euro a persona, 1.100 euro nella suite.
Nella notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012 la Costa Concordia avrebbe dovuto percorrere l’ultima tappa della Crociera “Profumi del Mediterraneo”. Otto giorni tra Savona, Marsiglia, Barcellona, Palma di Maiorca, Cagliari, Palermo, Civitavecchia e poi di nuovo Savona.
A comandare la nave era il capitano Francesco Schettino, che allora aveva 52 anni. Nato in una famiglia di marinai a Castellamare di Stabia, in provincia di Napoli. Fu proprio l’ordine di Schettino che causò la catena di eventi che portò al naufragio: il comandante disse ai suoi ufficiali che quella sera la nave avrebbe dovuto fare una piccola deviazione di rotta perché c’era da fare l’inchino all’isola del Giglio. «Amm’a fa l’inchino al Giglio», disse.
La pratica dell’inchino, consueta su molte navi, consisteva nell’avvicinarsi il più possibile alla costa per rendere omaggio a qualcuno sulla terraferma e dare la possibilità ai passeggeri di ammirare da vicino lo spettacolo dei paesi illuminati di notte. L’inchino al Giglio pare fosse una tradizione inaugurata nel 1993 dal comandante Mario Terenzio Palombo, originario dell’isola, che definì la consuetudine «emozionante e folkloristica».
Quel giorno Schettino aveva promesso al maître, Antonello Tievoli, la cui madre abitava sull’isola vicino al porto, che l’inchino ci sarebbe stato.
Iniziò la manovra di maggiore avvicinamento al Giglio, caratterizzata da incomprensioni e imprudenze. L’impatto avvenne alle 21.45. Il punto di collisione fu dietro la barra antirollio, un’aletta stabilizzante sul fianco dello scafo: si aprì uno squarcio di 70 metri, otto metri sotto la linea di galleggiamento.
La poppa iniziò ad affondare, la nave perse stabilità, arrivò vicino alla costa, urtò il fondale e si inclinò verso destra.
I passeggeri nel frattempo avevano sentito come una scossa, un rumore sordo, poi avevano capito che la nave stava rallentando, che faceva strane manovre, che ruotava su sé stessa e tornava indietro.
Un comunicato dagli altoparlanti, però, rassicurò i passeggeri. Schettino aveva dato ordine di parlare solo di un blackout:
«Signore e signori attenzione, vi parlo a nome del comandante. Abbiamo avuto un problema tecnico ai generatori della nave. C’è stato un blackout…I tecnici stanno lavorando all’inconveniente… Mantenete la calma, la situazione è sotto controllo…».
In realtà la nave si stava inclinando sempre di più, e si capì presto che quel comunicato aveva mentito. I passeggeri avevano capito che non si trattava di un semplice blackout, a bordo il caos era totale. Il frastuono di piatti, bottiglie e oggetti che si erano rovesciati era stato assordante. I più calmi si avvicinarono al punto di raccolta sul ponte 4, molti cercarono di individuare la scialuppa assegnata alla loro cabina. Una donna telefonò ai parenti che erano a casa, a Prato, che a loro volta chiamarono i carabinieri.
Dalla stazione dei carabinieri di Prato partì una telefonata alla capitaneria di porto di Livorno che a sua volta, alle 22.12, si mise in contatto con la Concordia: «Cortesemente, avete dei problemi a bordo?». Era passata quasi mezz’ora dall’impatto.
La risposta fu l’ennesima negazione di quanto stava avvenendo: «Abbiamo un blackout, stiamo verificando le condizioni». L’ufficiale insistette, dicendo che aveva notizia di giubbotti di salvataggio indossati ma la risposta fu sempre la stessa: «È solo un blackout».
L’ordine fu trasmesso alle 22.54 e 10 secondi, con almeno 50 minuti di ritardo dal momento in cui si era capito che la situazione era irrimediabile. Un’ora e dieci minuti dopo l’impatto con lo scoglio.
Di scialuppe ce n’erano molte, a sufficienza per tutti: il problema fu che non c’era nessuno che cercasse di mantenere l’ordine, che gestisse l’evacuazione con razionalità.
Nelle motivazioni della sentenza del processo, i magistrati scrissero che «parte dell’equipaggio destinato a incarichi chiave non conosceva i propri compiti in caso di emergenza». Le testimonianze parlarono di una bolgia: ci furono spintoni, pugni, calci per riuscire a salire su una scialuppa. La corsa per prendere i giubbotti di salvataggio fu un «tutti contro tutti», con donne tirate per i capelli e bambini spinti a terra.
Poco dopo la mezzanotte il comandante Schettino salì su una scialuppa assieme ad altri ufficiali. Alle 00.32 fu raggiunto dalle telefonate in cui dalla capitaneria di Livorno il capitano di fregata Gregorio de Falco gli intimò di tornare sulla nave per coordinare le operazioni di evacuazione, pronunciando il celebre «vada a bordo, cazzo».
Alle cinque del mattino le operazioni di evacuazione terminarono. Mancavano 32 persone. La ricerca dei corpi dei dispersi andò avanti a lungo: l’ultimo cadavere, quello di un marinaio indiano, fu trovato il 3 novembre 2014 sotto i mobili di una cabina del ponte 8.
Schettino fu arrestato nei giorni successivi al naufragio. Fu condannato a 16 anni di reclusione per omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, naufragio colposo, abbandono della nave.
Nel luglio del 2014 la Costa Concordia fu rimossa dal luogo del naufragio con un’operazione piuttosto complessa e riuscita perfettamente. Venne trasportata a Genova, dove il 7 luglio 2017 fu terminata l’opera di demolizione.