sabato, Novembre 23, 2024
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Mangiare pesce fa sempre bene al cuore? Lo studio della Federico II

Non è una novità ricevere dagli esperti l’indicazione di consumare pesce tre volte a settimana, soprattutto per prevenire malattie cardiovascolari ischemiche, come l’infarto; quello che però fino ad oggi non si sapeva è che non tutto il pesce ha lo stesso impatto sul nostro organismomeglio preferire quello azzurro (detto anche grasso) come sardine, sgombri, alici, a quello bianco (detto anche magro) come merluzzo, spigola, crostacei.

Sono due tipologie di alimenti che non sono interscambiabili.

“Abbiamo analizzato una popolazione di oltre un milione di individui – spiega la professoressa Olga Vaccaro,che ha guidato l’equipe – seguiti per un periodo di tempo che va dai 4 ai 40 anni. I risultati hanno mostrato che il consumo di 1-2 porzioni di pesce grasso a settimana si associa ad una riduzione significativa del rischio di infarto e di altre patologie cardiache che, per i casi fatali, si colloca intorno al 17%. Al contrario, il consumo abituale di pesce magro, pur non aumentando il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, non si associa a questi benefici”.
Questo ha una sua logica: il pesce grasso contiene, infatti, quantità fino a 10 volte più elevate di grassi cosiddetti omega-3, benefici per la salute, rispetto al pesce magro, ed “è più ricco di molte altre sostanze salutari come calcio, potassio, ferro e Vitamina D, che possono contribuire all’impatto benefico del pesce azzurro sul cuore”, sottolinea il professore Gabriele Riccardi, già direttore della Diabetologia Federiciana.

Le conclusioni dello studio avranno implicazioni rilevanti non solo per le scelte alimentari della popolazione adulta ma anche per la preservazione dell’ecosistema marino. La scelta preferenziale di pesce azzurro di piccola taglia, e con un breve ciclo di vita come alici, sardine, sgombri, aringhe e molti altri pesci meno noti ma molto diffusi nel mar Mediterraneo, è “molto più’ sostenibile dell’utilizzo di specie, ritenute più pregiate, che arrivano sulla nostra tavola grazie all’acquacultura o alla pesca intensiva”, conclude la professoressa Vaccaro.

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