Il paradiso, la malinconia, l’arte: la coreografia di Noa Wertheim attraverso contrasti e incontri mette in scena quella che viene definita come “un’opera cosmica” nella meravigliosa cornice antica di Pompei.
Noi tre
Siamo Soli
Viviamo in un ricordo
La mia eco
La mia ombra
Ed io
Noi tre
Non siamo una folla
E nemmeno una compagnia
La mia eco
La mia ombra
Ed io
Così inizia la coreografia di Noa Wertheim e della compagnia Vertigo andata in scena al Teatro Grande di Pompeii, con queste parole cantate da una delle ballerine che si esibiranno di lì a poco.
Un paradiso perduto
Difficile descrivere con le parole quel che si è visto andare in scena: vestiti di nero ed in un contrasto di bianchi e luci, la compagnia di danza mostrava i suoi ballerini come fossero davvero ombre, echi di qualcosa di perduto e tuttavia di irrinunciabile. In scena, attraverso la coreografia, è andato in scena qualcosa che riecheggia nei sogni di tutti noi, che ci brilla negli occhi nei giorni in cui c’è la luna alta in cielo, ma di cui non riusciamo a cogliere pienamente l’essenza – o che, forse, semplicemente non è esprimibile con il linguaggio o attraverso la logica, e che rimane latente – e pura – come una sensazione, un sentire arcaico. Qualcosa di forse mai esistito eppure, e contempo, mai dimenticato. Un paradiso perduto.
Di cosa è fatto il paradiso? Di simmetria.
Nella prima scena dello spettacolo, vediamo i ballerini che si uniscono a due a due nella danza, ed ognuna delle coppie danza orbitando intorno ad un centro posto esattamente tra loro due. Queste ombre scure si scambiano le une con le altre, formano nuove coppie orbitanti, ma, inizialmente, la simmetria, l’armonia e l’ordine, anche se mutevole, resiste. L’inizio dell’opera cosmica – così chiamata nel titolo dello spettacolo – ricorda il movimento delle molecole e delle stelle, e forse i ballerini stanno effettivamente interpretando il ruolo di elettroni impazziti e di materie e galassie che vanno creando e cambiando e assemblando, generando così un nuovo mondo. Che però, forse, non sarà mai più così perfetto.
L’evoluzione passa per il caos
Il paradiso e la sua armonia vengono infatti ben presto perduti. Il mondo – il palco – si trasforma in un calderone confuso, che ribolle di possibilità. Le unioni tra i ballerini non sono più armoniche né bilanciate, non sono gentili ma anzi spesso violente. Il mondo diventa lotta, contrapposizione di opposti, dolore. Ma attraverso questo dolore e questo scontrarsi d’opposti, nella sintesi di luce ed ombre, uomini e donne, musiche e rumori, in questo meraviglioso chiasso estetico si genera qualcosa di nuovo.
Sul palco compare una rampa, per metà bianca e per metà nera, lateralmente ricoperta da quelli che paiono petali. Nuovi movimenti nascono e nel salire questa rampa si manifestano. E’ nato qualcosa di nuovo, generato anche dalla violenza ma che ricorda l’armonia ormai perduta.
La violenza immobile dell’identità
Nonostante a prima vista non sembri, non è lo scontro appena avvenuto la parte più violenta dello spettacolo. Una ballerina si ritrova con le mani di tutti gli altri intorno al viso, al capo. Mentre cammina sul palco, lentamente, tutte queste mani le fanno da strascico – e sembrano appesantirla, bloccarla, schiacciarla. La ballerina cerca di staccarsi più volte dalle mani degli altri – e per brevi momenti pare riuscirci, lasciandole indietro in una posa plastica, come fosse quasi un calco della sua testa – ma poi vi ritorna indietro, e sotto, e lascia che la circondino nuovamente.
In questo mondo nuovo che si sta creando si perde la purezza iniziale, la libertà del paradiso è sempre più lontana. Anche se non si danza con nessuno non si è mai davvero da soli: la propria identità diventa la sintesi tra la propria essenza e gli altri, il resto del mondo. Sul palco c’è una bellissima rappresentazione estetica di un principio quasi freudiano: la ballerina, anche se a un certo punto si stacca e danza libera nell’ombra, fuori dal cono di luce del palco, viene subito sostituita da un’altra, un’altra sé, una che è possibile mostrare agli altri, al mondo, agli spettatori. C’è un Io, una parte dell’individuo di cui si parla in questo spettacolo, che si mostra al pubblico così come una persona si mostrerebbe al mondo; ci sono le sue sovrastrutture, degli altri interiorizzati, un super-io reso graficamente dalle mani che stanno sopra e intorno la sua testa – indirizzandone i movimenti, vietandogliene alcuni – ed una parte di sé che danza libera nell’ombra, lontana da tutte le costrizioni ed assecondando tutti i propri desideri, un es selvaggio come la materia o un uomo primitivo, che non accetta altro se non se stessa e l’imperativo delle proprie pulsioni.
E’ la storia violenta di ognuna delle nostre identità, combattute tra parti di calda oscurità ed algida luce: anche questa è la narrazione di una nascita, forse ancora più violenta della precedente.
La storia di una Saudade e della sua sublimazione
Lo spettacolo continua la sua narrazione, a volte attraverso movimenti fluidi e a volte attraverso movimenti rigidi, in alcune scene in modo delicato ed in altre invece violentemente. Ballerine e ballerini si affastellano sulla rampa, si sollevano gli uni sugli altri come a tendere verso la luna – che ad un certo punto viene anche invocata – ed il cielo, per cercare di soddisfare la malinconia, la melancolia, la Saudade per il paradiso e la pace che forse non saranno mai più raggiunti.
Ma, forse, c’è un modo per sublimare la propria sofferenza e nostalgia di questo non-conosciuto, c’è modo di trovare serenità: una ballerina cade dal cono di luce verso l’ombra, pare morta, raggomitolata su se stessa. Per la prima volta da quando è iniziata la coreografia la scena è statica e pare che tutto sia finito. Ma poi, improvvisamente, le luci si accendono sulla rampa: è comparso un paravento rosso, anche lui ricoperto come la rampa da quelli che sembrano petali. Si sente una musica conosciuta che nel contesto appare tanto aliena da sembrare quasi stonata: “Dream a little dream of me” di Doris Day.
C’è una figura che emerge dal paravento: prima la parte superiore è femminile e quella inferiore maschile, poi quella inferiore femminile e quella superiore maschile. In un gioco quasi di prestigio la sovrapposizione di due ballerini fa comparire questo gigante ermafrodito che si muove e danza dietro il paravento sulle note della voce di Doris Day come fosse davvero un sogno una visione. Una personificazione dell’arte che fonde corpi maschili e femminili in quello senza sesso di quest’opera cosmica che cerca di sublimare la sofferenza della violenza e della smarrita armonia in qualcosa che, con la bellezza, ci aiuti a superare il lutto del paradiso perduto.
Anche la figura della ballerina in ombra si rialza: non è morta, e guarda la danza dietro il paravento. L’arte non le ha portato via la sofferenza, ma l’ha resa capace di guardare alla violenza della vita ed alla mancanza di armonia trovandovi bellezza.
Dream a little dream of me: è proprio il paradiso perduto a cantarla ed invoca l’arte, e l’artista, affinché canti di lui, e lo ricordi.
You, tu… maybe
Poco prima della fine dello spettacolo, un ballerino danza, muovendo le mani come a simulare il battito di un cuore, movimento già proposto all’interno dello spettacolo, e si muove al ritmo degli applausi del pubblico. Quando questi si ferma, il ballerino si blocca, e non si muove più; il pubblico capisce rapidamente, e inizia a battere le mani in modo ritmato per non far fermare il ballo, fin quando il ballerino non inizia a cantare ancora una volta le strofe di “Dream a little dream of me“, interagendo col pubblico e spazzando definitivamente via la quarta parete: sogna un po’ di me, un po’ di questo paradiso perduto, canta, rivolgendosi agli spettatori, interrompendo la canzone e aggiungendo: “You!” indicando una delle poltrone. “oppure… tu!”, indicandone un’altra. “You… maybe” aggiunge alla fine, strappando una risata alla platea che era invece in una sorta di stato di estatica vigilanza. La risata rompe l’incantesimo, i ballerini danzando scivolano fuori dalla scena per poi raccogliere i meritati e lunghi applausi.
L’arte ha mantenuto la sua promessa: la malinconia ha vissuto una catarsi, e s’è trasformata in estasi.
Uno spettacolo moderno nella Pompei antica
Non ci si può esimere dal citare il ruolo aggiuntivo svolto dalla meravigliosa cornice del Teatro Grande di Pompei: vedere uno spettacolo di danza così moderno messo in scena in una cornice antica è incredibilmente bello, quasi commovente.
Il contrasto tra il Teatro e la coreografia è struggente e mostra allo spettatore il ruolo fondamentale dell’arte nella vita di ciascuno e dell’umanità intera: l’arte è il filo rosso che unisce l’uomo alla vita, una storia d’amore lunga migliaia di anni e forse unico strumento a nostra disposizione che renda ancora oggi l’esistenza tollerabile. Proprio come ai tempi dei nostri antenati, “Il paradiso perduto. Leela – opera cosmica” ha svolto quel ruolo di agente catartico di cui forse oggi più che mai avremmo bisogno.
Sweet dreams till sunbeams find you
Sweet dreams that leave all worries behind you
But in your dreams whatever they be
Dream a little dream of me…
La Coreografia e la Compagnia
“Il paradiso perduto. Leela – opera cosmica” è, come anticipato, una coreografia di Noa Wertheim realizzata con la Vertigo Dance Company. Le musiche sono originali di Ban Bagno. La produzione è ad opera del Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale, Fondazione Matera Basilicata 2019, Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia e, naturalmente, la Vertigo Dance Company.
La Vertigo Dance Association è stata fondata ventisette anni fa a Gerusalemme da Adi Sha’al e Noa Wertheim, l’ultima dei quali è l’attuale direttore artistico.
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