Quando, in Campania, si vuole indicare un avvenimento che non accadrà mai, si dice: quanno chioveno passe e ficusecche!, ovvero: quando pioveranno uva passa e fichi secchi. E’ un modo di dire dal senso simile al più inflazionato quando gelerà l’inferno.
Il motivo che spiega questo modo di dire è tuttavia un po’ più oscuro e dunque non ci si può far a meno di domandare: ma perché si dice così?
Pare che tutto abbia origine da un racconto di Giambattista Basile, contenuto nel suo celeberrimo “Lo Cunto de Li Cunti – ouero lo trattenimento de’ peccerille” (Il racconto dei racconti – ovvero l’intrattenimento dei piccoli), da cui pochi anni fa venne tratto anche un film di successo che si ispirava ad alcune delle sue favole.
Questa settimana, per indagare su questi strani passe e ficusecche che cadono dal cielo, #BussoLaLingua vi narrerà la favola del povero Vardiello, che un giorno, purtroppo per lui, vide davvero piovere uva passa e fichi secchi.
Vardiello
Vardiello e sua madre
Vardiello era un ragazzino che viveva con sua madre, di nome Grannonia.
Purtroppo non era molto sveglio, e combinava tanti, tantissimi guai, facendo disperare la povera donna. Oltre che dai pasticci di Vardiello, Grannonia era gravata dal peso della miseria e della povertà; la loro era una vita grama, a tratti disperata – e la stupidità del figlio non faceva che peggiorare questa già brutta situazione.
Le uova e la gallina
Un giorno, uscita di casa, la madre diede a Vardiello due compiti: quello di dover tener d’occhio la chioccia e di resistere dalla tentazione di mangiare delle noci conservate in un barattolino. Grannonia aggiunse che quelle noci erano velenose, e che per questo non doveva assolutamente toccarle.
Vardiello si distrasse ben presto dal suo dovere e, mentre stava preparando uno scherzo a danno di alcuni ragazzini, all’improvviso si rese conto che la chioccia non stava più covando le sue uova. Ben deciso a riportala lì, cercò di farlo spaventandola con un martello – ma, ahimè, Vardiello agitando l’arnese per errore uccise la povera gallina.
Pensando che le uova non si sarebbero mai schiuse senza la chioccia a covarle, il ragazzino decise di covarle lui stesso. Portando avanti questo insano proposito, s’accovacciò sulle uova ma poi, purtroppo, ci cadde sopra, rompendole tutte.
Il vino, il gatto e la farina
Vardiello si sentiva assai confuso per tutti i guai che aveva combinato, ma questo non aveva spento il suo appetito. Per sfamarsi, pensò allora di cucinare la gallina che aveva involontariamente ammazzato: la prese, la infilzò in uno spiedo e cominciò a prepararla.
Mentre la carne della gallina cuoceva, il ragazzino, approfittando dell’assenza della madre, decise di arricchire il proprio pranzo con un bel bicchiere di vino. Scese dunque nella cantina e aprì un barile, versando un po’ del suo contenuto in un bicchiere.
Bevuto il vino, Vardiello, tornando in cucina vide un gatto che stava portando via la gallina, ormai ben cotta, con tutto lo spiedo. Cercò di fermare il gatto ma, ancora una volta, senza successo. Come se tutto ciò non fosse stato già abbastanza, s’accorse d’aver lasciato aperto il barile di vino, il cui contenuto s’era riversato tutto sul pavimento.
Per rimediare, il ragazzo rovesciò sul vino versato un sacco di farina, e solo allora s’accorse d’aver avuto tante, tantissime pessime idee.
Il forno e le noci
Disperato, un po’ ubriaco, pensò che sarebbe stato meglio morire che vedere la reazione della madre a tutte le sue malefatte: così, per uccidersi, mangiò le noci avvelenate e si nascose nel forno.
Grannonia, che invero non era stata lontana per così tanto tempo, tornata a casa trovò un disastro: uova rotte, galline scomparse, nessuna noce nel barattolo ed il pavimento pieno di vino e farina. Conoscendo bene il suo terribile figliolo, cominciò a chiamarlo a gran voce, cercandolo dappertutto – ed infine lo trovò nel forno.
Vardiello, piangendo, le spiegò cos’era mentre la donna non c’era, dalla morte “accidentale” della gallina alla sua decisione di ingollare le noci e morire; la madre lo tranquillizzò, spiegandogli che le noci non erano avvelenate, e che gliele aveva descritte così solo per non fargliele toccare.
La tela e la statua
Dopo qualche tempo, Grannonia affidò al figlio un altro compito: lo mandò al mercato per vendere una tela. Prima che Vardiello andasse via, aggiunse di diffidare da coloro che parlavano troppo, dando aria alla voce.
Il ragazzo dunque s’avviò di buona lena, ben deciso a non combinare guai. Mentre si dirigeva al mercato, sul suo cammino trovò un casale abbandonato, nel cui cortile c’era solo la statua d’un uomo dall’aspetto distinto. Vardiello si sedette accanto alla statua, scambiandola per un uomo in carne ed ossa, cercando di fare conversazione.
Per quante domande Vardiello formulasse, la statua, naturalmente, non proferiva parola; il ragazzo, ricordando la raccomandazione della madre, pensò che quello fosse un uomo di poche parole e che dunque fosse la persona giusta a cui vendere la tela. Lasciò quindi la tela accanto alla statua, affinché “l’uomo” potesse esaminarla con calma, dicendo che sarebbe tornato il giorno successivo per concludere l’affare.
Vardiello ed il tesoro
Quando Vardiello raccontò a Grannonia quanto accaduto, la donna capì subito che il ragazzo era stato ancora una volta vittima della propria stupidità. Tuttavia Vardiello ignorò la disperazione della madre, convinto che “l’uomo” di poche parole lo avrebbe pagato il giorno successivo.
Il mattino seguente tornò dunque al casale abbandonato, dove c’era la statua. Vardiello provò a farsi pagare da questa, ma, quando la statua non ebbe reazioni alla sua richiesta di avere denaro, il ragazzo pensò che volesse imbrogliarlo; prese quindi un sasso e lo tirò contro la statua.
La statua si ruppe in mille frammenti, ed allora Vardiello vide con stupore che al suo interno celava denaro, pietre preziose e gioielli. Raccolse il bottino nella tela e lo portò alla madre, che fu ben felice del fatto che la stoltezza del figlio le avesse procurato, per una volta, un po’ di fortuna.
Il giorno in cui trovai un tesoro in un uomo cavo
Grannonia raccomandò a Vardiello di non raccontare a nessuno quant’era successo, ma, nonostante lui avesse giurato e spergiurato che avrebbe mantenuto il segreto, la donna non si fidava del figlio: sciocco com’era, avrebbe rivelato tutto, fosse solo per ingenuità.
Elaborò dunque un piano; prese dalla dispensa uva passa e fichi secchi e li gettò dalla finestra della sua casa, proprio sulla testa di Vardiello. Il ragazzo, incredulo, cominciò a gridare alla madre che piovevano uva passa e fichi secchi.
Qualche giorno dopo i timori di Grannonia si rivelano fondati: Vardiello, vedendo due operai litigare davanti ad una Corte per una moneta d’oro che avevano trovato, disse a tutti che, una volta, aveva trovato così tanto denaro che per lui non valeva davvero la pena, ormai, penarsi per una sola moneta. La Corte incredula, gli chiese come e quando avesse trovato quelle monete, ed allora Vardiello rispose: il giorno in cui trovai un tesoro in un uomo cavo, quanno chioveno passe e ficusecche!
Nessuno, ovviamente, sentendo parlare di uva passa e fichi secchi che cadevano dal cielo, credette più ad una sola parola di quel andava dicendo Vardiello. Il Giudice che stava decidendo del caso pensò che Vardiello fosse matto e dunque ordinò che fosse portato e curato in ospedale.
Quanno chioveno passe e ficusecche!
Questa, dunque, è l’origine di questo modo di dire tanto particolare.
Quando, la prossima volta, dovrete parlare di qualcosa d’impossibile e che non si verificherà mai potrete rispondere, senza esitazione: quanno chioveno passe e ficusecche!
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