di Roberta Sanguedolce – Al Teatro San Ferdinando torna in scena, “La Cupa – Fabbula di un omo che divinne un albero”, scritto e diretto da Mimmo Borrelli, l’autore, attore e regista napoletano riconosciuto come uno dei maggiori drammaturghi italiani contemporanei.
La Cupa, che al suo debutto nel 2018 si aggiudicò numerosi riconoscimenti e il favore della critica, costituisce il primo capitolo della Trinità della Terra a seguire la Trinità dell’Acqua di ‘Nzularchia (2003), ‘A Sciaveca (2006), La madre: ‘i figlie so’ piezze ‘i sfaccimma (2010). Un’opera monumentale scritta in cinque anni di fatica da Mimmo Borrelli, di cui noi assistiamo alla messinscena di una versione ridotta di un quinto del testo completo che consta di quindicimila versi.
Il titolo ha una doppia accezione: è il sentiero stretto «che s’apre nelle cave», ma rimanda anche all’oscurità e a tutte le metafore che ne conseguono. Al buio tutto può succedere.
Cupa, ’nfa maje matina, / ’u sole va a ’mbiccia’, / se ’nfrasca ’nt’ ’a cantina / r’ ’a feccia ’i ll’umanità. / Cupo è ’u dilavamento. / Ahi voglia ’i strafuca’ / si ’u ttufo ’nse presenta, / pane tuosto baccala’!…
È il canto di Ciaccone che, come in un rito primigenio di morte e rinascita, apre il primo dei due segmenti e mette in moto la vicenda presente. È la rappresentazione dell’antica e violenta ostilità – a causa di una cava di tufo contesa in una partita giocata a carte truccate – tra due famiglie di scavatori: quella di Giosafatte ‘Nazamamorte, malato di tumore, e di Tommaso Scippasalute.
Di conseguenza l’unione dei due giovani innamorati Vicienz Mussasciutto e Maria delle Papere diventa impossibile: la giovane viene stuprata dal padre di lui, mentre il ragazzo, che rifiuta di credere all’innocenza della sua amata, muore sotto le macerie che si abbattono sulla cava. Maria delle Papere, cieca e destinata al suicidio come la madre, si infligge un taglio netto alla gola, non prima di aver scoperto che quello che pensava fosse suo fratello, in realtà, era suo padre: Giosafatte, un uomo che si rifiuta di essere padre pagando una colpa di vent’anni prima, quella di non aver saputo proteggere suo figlio Mimmuccio, trovato morto assiderato in seguito a una tempesta. L’altro figlio di Giosafatte, il sopravvissuto Innocente Crescenzo, torna per vendicarsi di Scippasalute, essendo stato da lui violentato come la sorella, e per riconoscere il padre e farsi riconoscere come figlio.
Come accade nel mito, all’interno di ciascun protagonista troviamo la dialettica tra passato e presente, da cui nasce uno dei temi tragici per eccellenza: l’ereditarietà della colpa, secondo cui il singolo risponde anche per la colpa dei predecessori.
I rapporti familiari sono degradati e perversi, altrettanto lo è la sessualità, corrotta e spinta fino al limite dell’umano. Ci troviamo di fronte a uomini dagli istinti animali incontrollati, creature mostruose, talvolta vere e proprie figure ibride a metà tra l’uomo e l’animale (si veda la papera che accompagna la sua padrona o il maiale Ciaccone, forse tra quelle meglio riuscite), che danno vita a un linguaggio fatto di suoni e onomatopee animalesche che si fondono a un turpiloquio insistente e blasfemo.
Sull’impianto scenografico di Luigi Ferrigno campeggia una gigantesca sfera che rappresenta la Terra e a sovrastarla scende dall’alto un enorme grifone alato fatto di una composizione materica di brandelli di rete da pesca, simbolo della Natura che protegge o distrugge la brutale umanità sottostante. Gli attori danzano, lottano, cantano su una pedana attraversa la platea del teatro e la divide in due. Alle spalle delle poltrone, nella zona semicircolare del San Ferdinando, è raffigurata l’effigie di Sant’Antonio con un maiale.
La musica, eseguita dal vivo da Antonio della Ragione, ha un ruolo fondamentale: interagisce con il ritmo dei versi declamati dagli attori e accompagna il loro movimento, come “vattienti” in un rito sacrificale.
Lo spettatore è stranito davanti a uno spettacolo di cui forse non comprende tutti i dettagli a causa di un testo particolarmente ostico e crudo, si trova però travolto dal fascino dell’arcano e della vivida asprezza dei corpi; immerso nell’oscurità e al centro dell’aberrazione di un’umanità perduta, un popolo universale sganciato dalla dimensione spazio-temporale e dall’imitazione di realtà già esistenti, ma storie di personaggi esemplari consegnate all’eternità del mito. In questo senso, l’operazione linguistica di Borrelli è del tutto funzionale al processo di esemplarità dell’opera: il vernacolo di Torregaveta, variante più aspra del napoletano anche per la chiusura delle vocali, perciò ancor più indecifrabile, si carica di significati oscuri e che facilmente si prestano ad allegorie e simboli che alludono al destino degli uomini.
La performance è potente, densa di fisicità, di corpi che trasudano dolore e sudore, lacrime e sputi. Mimmo Borrelli addestra personalmente il suo esercito di attori, soldati messi sempre alla prova e orientati verso un unico obiettivo: lo scavo emotivo della verità.
La cupa. Fabbula di un omo che divinne un albero
versi, canti, drammaturgia e regia Mimmo Borrelli
con Maurizio Azzurro, Dario Barbato, Mimmo Borrelli, Gaetano Colella, Veronica D’Elia, Renato De Simone, Gennaro Di Colandrea, Paolo Fabozzo, Marianna Fontana, Enzo Gaito, Geremia Longobardo, Stefano Miglio, Autilia Ranieri
scene Luigi Ferrigno
costumi Enzo Pirozzi
disegno luci Cesare Accetta
musiche, ambientazioni sonore composte ed eseguite dal vivo da Antonio Della Ragione
assistente ai costumi Irene De Caprio
assistente alle scene Sara Palmieri
trucco Sveva Viesti
foto di scena Marco Ghidelli
produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale
durata 3h
lingua cappellese, bacolese, montese, italiano, napoletano
Napoli, Teatro San Ferdinando
in scena dal 27 febbraio all’8 marzo 2020
Recensione a cura di Roberta Sanguedolce
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