Ho incontrato Floriana Coppola, la prima volta, da Epochè Club Art, un antro culturale sulla collina del Vomero, dove la scrittrice, insieme ai sodali Matilde Cesaro e Pierfilippo Agosti, ha creato un luogo di condivisione artistica e letteraria unico a Napoli. Nonostante il delicato riserbo di Floriana, sembrava ci fossimo conosciuti in una vita precedente, “le anime simili si riconoscono”. Floriana Coppola sa ascoltare, ha il dono nobiliare del garbo e occhi immensi pensosi con lampi antichi di malinconia. È una intellettuale raffinata che esprime la sua poetica attraverso molteplici linguaggi: poesia, narrativa, pittura. Il suo cammino viene da lontano. Nel 2005 ha pubblicato la silloge poetica Il trono dei Mirti, nel 2012 la silloge poetica Sono nata donna, Nel 2011 ha curato i primi due quaderni antologici di poesia Alchimie e linguaggi di donne, poi l’antologia poetica con Ketti Martino La poesia è una città. Nel 2012 ha pubblicato il primo romanzo, Vico Ultimo della Sorgente, e la silloge poetica Mancina nello sguardo. Nel 2013 scrive con Anna Laura Bobbi la silloge poetica MiticaFutura, itinerari nel mito di ieri e di oggi. È presente in diverse antologie poetiche e in numerosi saggi critici. Nel 2014 ha pubblicato il romanzo Donna Creola e gli angeli del cortile, nel 2016 Femminile singolare. Nel 2017 pubblica la silloge di poesie Cambio di stagione e altre mutazioni poetiche. Nel 2019 pubblica la silloge La faglia del fuoco, con incisioni di Aniello Scotto. Sempre nel 2019 pubblica il romanzo Aula voliera, Oèdipus edizioni.
Aula Voliera è un romanzo viaggio, un itinerario struggente attraverso i luoghi e il tempo. L’io narrante, Antonia, ripercorre gli spazi, figurati e interiori, della sua vita: l’amato Cilento, la straziante Napoli della Ferrovia, le aule scolastiche, le case che ha abitato. Il tempo invece è quello della memoria e del presente, della lotta e delle sconfitte, del dolore e della tenacia. Antonia si è battuta e sente vivo il richiamo indomito all’impegno e alla testimonianza, nonostante le laceranti ferite che le segnano l’anima e il corpo. C’è la Scuola, luogo d’amore e di disastri, c’è una Donna, meditativa e libera, c’è la Storia, con i suoi orrori, e c’è, sotterraneo, un fiume carsico di esistenzialismo elegiaco. Aula voliera ha le stimmate del “classico”, è una potente riflessione sulla vita e sulle relazioni, sulle sconfitte, che inevitabilmente sembrano attendere ognuno, ma anche sulla necessità di opporsi e di affermare la sinfonia misteriosa dell’esistenza. La scrittura è “tersa e elegante” e alle parti più propriamente narrative se ne alternano altre, diaristiche, liriche, veri flussi di coscienza poetici. Tanto che il romanzo potrebbe essere rimontato, dividendo e riassemblando le sue due anime costitutive: prosa e poesia. È un libro della memoria e nella memoria, un atto d’amore dolente. È un’opera sul tempo, inesorabile, una narrazione che aggruma ferite e vissuti, dolore e rimpianti; una riflessione intensa sul passato prossimo e sul presente. Aula Voliera è un libro bellissimo.
Poetessa, scrittrice, pittrice Floriana Coppola declina molteplici modi per dire e per dirsi…Quando ti ha trovata l’Arte? E quale bisogno è sotteso alla necessità di esprimersi?
Non ricordo quando ho iniziato, ma appena ho imparato a scrivere ho inventato le prime favole che poi illustravo e da adolescente ho continuato, scegliendo dapprima la pagina poetica come uno spazio segreto, intimo e personale, dove appuntare immagini, sensazioni, sentimenti e impastarli con i suoni delle parole che mi hanno sempre affascinato. Proprio questa alchimia tra suono, significato e immagine mi ha da sempre attratto. Ho sentito il bisogno e l’urgenza di inventare un luogo dove ripararmi, dove segnare ciò che rimaneva inespresso nella vita quotidiana. Esisteva uno scarto invisibile tra ciò che vivevo e sentivo e ciò che avveniva intorno a me. Uno slittamento percettivo che aveva la necessità di emergere, di trovare voce. La scrittura, sia in versi che in prosa, mi ha aiutato a resistere a una sensazione di difficile adattamento a ciò che è e che dovrebbe essere, mi permette di reggere la fatica che sento nell’aderire a ciò che la vita vuole che io sia, a spezzare l’ordine che inganna, per ascoltare le ombre. Siamo una moltitudine, dice Pessoa, e infatti questo condominio di anime ha bisogno di essere canalizzato, di trovare la sua strategia di sopravvivenza e di svelamento. Una specie di bussola per orientarsi nella geografia interna che ci inquieta. Non credo che tutti abbiano questa necessità, forse esiste una segnatura, uno slittamento, una natura divergente che rende alcune persone destinate ad esprimere attraverso l’arte questa marcatura. Come diceva Ungaretti, entrare nel porto sepolto per portare alla luce a ogni immersione, a ogni navigazione, pagine che ci raccontano e che raccontano così il mondo. Chi scrive combatte contro questo disadattamento, che nella pagina trova la sua consolazione, il suo conforto anche se solo temporaneo, provvisorio. La stanza immaginaria del mio laboratorio della scrittura si è così allargata. Poesia e prosa, collages e disegno: si tratta di un unico esperimento, di un percorso in progressione, che continua ad appassionarmi. Non mi definisco in un solo modo, non mi basta una sola classificazione, perché la vivrei come un limite. Preferisco sentirmi al confine di molte aree espressivo-artistiche. Ogni potenziale creativo miscela i linguaggi artistici.
Scrivere è raccontare il mondo ma anche raccontare se stessi, o forse sono due forme complementari che si intrecciano?
Scrivere è raccontare se stessi, raccontare il mondo, aprirsi ad un ventaglio infinito di interrogativi che nascono sia dal proprio vissuto autobiografico sia dal momento storico politico sociale che si vive. Si tenta di esprimere una particolare percezione della realtà, di dare voce alle dinamiche relazionali che emergono da ogni storia, cercando di individuare una posizione, uno sguardo interno, una chiave che possa essere convincente. Nella prosa come nella poesia, le parole sono in un certo senso una materia che va plasmata, trasformata per aderire il più possibile all’idea che fa da motore alla storia e al verso. E l’idea spesso concentra in se stessa più nature: filosofica, esistenziale, espressiva, catartica. Si tratta di un processo che posso anche definire “artigianale” e psico/esistenziale. La revisione del testo, la sua attenta rilettura, diventano operazioni irrinunciabili per costruire una pagina convincente e matura, che non sia retorica e quindi già sentita, finta. Per lavorare sulla parola, non bisogna mai accontentarsi. Ogni forma di letteratura risponde a un atavico bisogno della comunità degli umani di ascoltare le storie. Il mito è infatti il racconto dei racconti, una modalità universale di rispondere ai grandi interrogativi dell’esistenza. E dietro ogni trama narrativa si nasconde una miscela di figure mitologiche e archetipiche che creano scompiglio e caos dentro ognuno di noi, ponti e lezioni continue di vita per ogni passaggio evolutivo. Il Guerriero, il Santo, il Mercante, il Bambino Divino, la Strega, la Fata, la Regina, l’Eroe e ancora altri sono archetipi universali rintracciabili in ogni storia e che ci aiutano a decodificare l’universo psicosociale che ci attraversa.
Parliamo di Aula Voliera, romanzo complesso e dolente, come è nato? Da dove viene?
Lavoro nella scuola da quando avevo venti anni, sono cresciuta nell’istituzione scolastica attraversando contemporaneamente le tappe fondamentali della mia vita di donna e vivendo le trasformazioni di un lavoro, che si è modificato nel tempo. Sentivo il bisogno di fermare sulla carta la memoria incandescente di questa esperienza, come donna e come docente. Conciliare le due dimensioni, scuola e famiglia, è stata un’operazione difficile e assolutamente non scontata, come per ogni donna. Volevo dare testimonianza di tante contraddizioni che ho vissuto nella scuola, senza però essere ideologica e retorica. Ricreare attraverso la scrittura un mondo complesso e profondamente in crisi, un ambiente che diventa ogni giorno il luogo doloroso di incontro tra varie generazioni, dove adulti, ragazzi e bambini cercano di crescere e di costruire una conversazione spesso fallimentare, poche volte felice. Indagare sui motivi di questa infelicità che danna maestri, professori, alunni e studenti. Si parla spesso di burn out docente e di dispersione, volevo dare voce ai tanti volti che vivono questa condizione frustrante senza vedere via di uscita. E adesso con la didattica digitale tutto mi sembra paradossale. Ho scritto un romanzo per parlare della relazione, della necessità di comprendere che ogni percorso di conoscenza passa attraverso una relazione sufficientemente positiva e felice, indispensabile per motivare all’impegno di studio. Ciò che per me è scontato, mi sono resa conto negli anni che non è opinione comune, soprattutto nei licei. Il docente è un operatore culturale, un coach motivazionale non un algido trasmettitore di saperi. Eppure stiamo drammaticamente andando verso la deriva opposta: non dare importanza alla relazione ma alla valutazione degli apprendimenti. E oggi viene imposto di dimezzare i tempi della relazione didattica a causa della pandemia. A volte la realtà usa delle metafore universali che svelano in modo drammatico dove stiamo andando.
Tornando sui motivi della scrittura, Aula voliera è una riflessione esistenziale e, allo stesso tempo, una riflessione storica, il comune denominatore dei due elementi è il fallimento? Nel romanzo difatti vi è una sconfitta soggettiva (il matrimonio, il lavoro come trappola, le relazioni) e una collettiva (l’impegno politico, la scuola, la camorra).
Assolutamente vero, Aula voliera è una riflessione esistenziale sulla complessità della relazione, di ogni relazione. È un romanzo sulla difficile costruzione dei legami, come sfondo essenziale di ogni crescita personale e culturale. La relazione tra donne, tra un uomo e una donna, la relazione familiare e poi la relazione di apprendimento con tutte le sue cadute e le sue proiezioni. Un romanzo che vuole mettere in scena il reticolo vischioso e molteplice delle relazioni che ognuno di noi attraversa. La scuola è agenzia di formazione delle persone e non sempre si ha consapevolezza dell’importanza della comunicazione come fattore fondativo dei processi di conoscenza. AULA VOLIERA vuole segnare una sconfitta dolorosa e storicizzata di questa istituzione, che vive una crisi epocale profonda. Questa sconfitta si intreccia con quella personale. Ma il senso di questa sconfitta è unico: l’incapacità di reggere il cambiamento, la stereotipia degli stili relazionali, la sclerotizzazione dei ruoli adulti che vengono vissuti come immodificabili. Il livello transpersonale si svolge all’interno di una cornice politica precisa, il meridione con i suoi cancri sociali, la camorra e la difficoltà di intercettare i bisogni delle nuove generazioni, per spezzare quei circuiti criminali autodistruttivi e lesivi che irretiscono gli adolescenti più fragili in ogni comunità. Ma si scrive il peggio per ambire e sognare il cambiamento.
Floriana, Aula Voliera è anche la cronaca della sconfitta di una generazione? Ci eravamo immaginati un altro mondo?
Certo, in questi anni come dice lo psicanalista Benasajag nel saggio magnifico “L’epoca delle passioni tristi” abbiamo perso la consolazione di ogni ideologia, sono andati profondamente in crisi gli ismi, il comunismo, il socialismo il cristianesimo. Ne aveva parlato anche Pirandello nella sua lanterninosofia. Ogni utopia salvifica è crollata miseramente, si è dissolta lasciando un senso profondo di smarrimento e di fallimento. Dobbiamo ancora elaborare fino in fondo questo lutto. Abbiamo lasciato alle nuove generazione solo il fardello ansiogeno di mille paure. Paura dell’altro, paura del futuro, paura del diverso, paura del legame. La società liquida di Bauman è soprattutto basata sull’incapacità generale di investire nella relazione profonda, spostandosi sul consumo di oggetti e di persone, senza creare attaccamento. Una società cannibale direbbe in versi Lello Voce. Il mio romanzo vuole raccontare la storia di una donna che credeva in questa missione salvifica, che aveva investito nel ruolo magistrale, avendo come grande motivazione il principio di uguaglianza e di libertà da difendere tramite l’alfabetizzazione scolastica e l’elevazione culturale. Ma qualcosa è cambiato. Il sistema di formazione istituzionale non ha retto alla trasformazione socioculturale della società di massa. Si sono modificati i paradigmi e così anche i luoghi della comunicazione. Ciò che prima era una meta ambita, la promozione culturale borghese, oggi non è che un mascheramento vuoto. La piramide valoriale contemporanea è stata rovesciata. La borghesia intellettuale è stata svuotata di significato e con lei la scuola. Il denaro e la realizzazione economica, il linguaggio dei social net-work hanno rimpiazzato ferocemente il mito dell’avanzamento culturale delle masse. Anche la cultura contadina e operaia, così apprezzate da Pasolini e da Gramsci, sono state colonizzate dalla cultura capitalistica e consumistica, togliendo prestigio e valore a tutto ciò che non rientra nella logica commerciale. Il successo economico è al primo posto. Ricordo le immagini degli operai nel film di Ettore Scola (“Trevico-Torino: viaggio attraverso il Fiat-nam”) mentre leggono L’Infinito di Leopardi come un tassello importante del loro riscatto sociale. Oggi invece bisogna soprattutto guadagnare, non serve leggere e studiare se non raggiungere una progressione professionale con finalità in prevalenza economica. La scuola ha perso il suo fascino e il suo prestigio. I docenti sentono e soffrono la frustrazione di un ruolo che ha perso di credibilità. La scuola viene considerata un diplomificio, ha perso il valore simbolico di una volta, depauperato da ogni fascinazione sociale. Non si può tornare indietro con false operazioni nostalgiche ma andare avanti. Intercettare i nuovi bisogni delle giovani generazioni, trovare altri modi per avvicinare gli studenti al patrimonio culturale, individuando con esattezza gli scopi reali della formazione. Bisogna trovare altre strategie motivazionali per avvicinare i ragazzi alla cultura. Non serve la valutazione punitiva, la lezione frontale di stampo ottocentesco, il curricolum rigido e datato. Bisogna reinventarsi tutto e tornare a fare scuola nel vero senso della parola. La scommessa primaria che sente la personaggia centrale del mio romanzo è proprio capire dove bisogna dirigersi, dove bisogna investire le proprie energie per recuperare il senso di questa dimensione formativa. Chiedersi come e perché. Creare legami, cercare nuove alleanze e nuove strategie, mettere in discussione in modo assoluto le modalità di comunicazione e di trasmissione culturale utilizzate fino ad oggi. L’apprendimento passa attraverso la relazione, ma cosa è giusto oggi insegnare? Cosa serve trasmettere? Quali sono i contenuti fondamentali? Quali conoscenze e quali valori bisogna contrattare con gli studenti? Serve imporre sempre gli stessi autori e le stesse nozioni? Tutto va cambiato: strategie, modalità, forme e contenuti di apprendimento, soprattutto per la scuola superiore. Registro il fallimento e la crisi ma non desisto nel proporre delle vie di ricerca che possano vivificare questa istituzione che considero ancora molto importante ma che bisogna con coraggio smontare integralmente e rifondare secondo altri paradigmi più vicini al terzo millennio. Non ho risposte, ma questo romanzo vuole sollecitare una messa in discussione profonda.
Due assi portanti dell’opera sono il Tempo e la Memoria. Il tempo come inesorabile divenire che tutto sembra corrodere, la memoria che si ostina a resistere, conservando un mondo passato e le sue ferite. E poi c’è il corpo. Il corpo ferito, minacciato, segnato, eppure ancora vibrante, di Antonia.
Si, il romanzo diventa testimonianza di un vissuto anche trasfigurato dalla narrazione. L’altro binario su cui si svolge la narrazione è infatti il vissuto biografico, l’autofiction, la scrittura diaristica di Antonia. Il tempo che passa e consuma, il corpo che si ammala e che cambia, l’urgenza di scrivere per capire, per non perdere frammenti importanti della propria vita, la memoria come archivio e laboratorio permanente di comprensione e di conoscenza di se stessi e del mondo. Scrivere come terapia taumaturgica per darsi una pausa meditativa, per riflettere, per non dimenticare, per rendere prezioso ogni attimo e per rileggere le storie e i legami. Memoria del corpo che diventa parola. Ogni storia è testimonianza radicale della costruzione della persona, del farsi persona in un determinato contesto. Il corpo, la mente e l’anima sono dimensioni intrecciate che vanno guardate nelle loro interconnessioni profonde, superando ogni solipsismo. La concezione occidentale non ha ancora perfezionato questo sguardo e separa drammaticamente questi tre aspetti che invece camminano mescolandosi. Non è stato semplice raccontare questa scissione e cercare di ricomporla pagina dopo pagina. La malattia parla di questa scissione e l’autoanalisi e il diario sono opportunità per superarla.
Antonia sembra in un labirinto senza possibilità di fuga, distante dagli altri, ella si aggira dentro se stessa incontrando i suoi fantasmi, le attese tradite, i sogni infranti, tra amarezza e consapevolezza.
Antonia registra una crisi profonda. Non è stato semplice parlare del burn out senza scivolare nel vittimismo e nella retorica. Accennare alla dispersione scolastica, ai facili guadagni della camorra organizzata, alle contraddizioni tra l’offerta dei licei e la mancanza di lavoro al Sud. Crisi di un ruolo, crisi del nostro territorio. Ogni crisi apre a una trasformazione, a una rivoluzione esistenziale, apre al cambiamento. Narrare questa mutazione voleva dire trovare le parole giuste per dare voce alla sofferenza e alle percezioni che ogni persona attraversa quando sente di essere arrivata a un bivio cruciale della propria vita. Il dolore e la nostalgia, il senso di perdita e di smarrimento sono elementi che si intrecciano alla voglia di non lasciarsi andare, alla tenacia per trovar la forza per la risalita. Questo cadere e rialzarsi è stato, pagina dopo pagina, curato nel dettaglio. Temevo la ridondanza di una scrittura che potesse alludere solo alla depressione, ma ho tentato di far emergere dal buio ogni volta una piccola luce, una scintilla.
ll romanzo, incluso il finale che assolutamente non sfioreremo neppure, sembra non lasciare molte possibilità al lettore, tranne forse un amore ancora possibile, tranne forse la presenza irriducibile di Tinù, ma sono barlumi, frantumi, piccole zattere in una tempesta devastante…
La scrittura anche quando sembra disperante allude al grande amore per la vita. Tinù, presenza invisibile e magica, vuole ricordare questa dicotomia interiore, il dolore per una realtà precaria e impermanente e la gioia sottile di tutto ciò che è impalpabile e vibrante. Ho voluto utilizzare un doppio registro: la pagina prosastica in terza persona e la pagina in flusso lirico di coscienza. Il lavoro sulla scrittura è stato per me importante. Abituata alla scrittura poetica, non potevo tralasciare la pagina narrativa e ogni rigo è stato scritto e riscritto, cercando la forma migliore per esprimere le minime variazioni dei sentimenti. Ho voluto richiamare attraverso il linguaggio metaforico la complessità del vivere, l’oscillazione continua tra gli opposti, l’intermittenza tra la percezione della fine e l’entusiasmo vitale che porta al cambiamento. Tinù è l’anello mercuriale tra ragione e follia, la presenza invisibile e magica dell’esoterico che è tra le pieghe della realtà quotidiana, minuscola vibrazione che non tutti sanno cogliere tra le cose, dentro le cose.
Le parole e la scrittura hanno il dovere di narrare il male del mondo ma anche la vita inarrestabile, ci riescono?
Il romanzo non è un saggio, non ha l’assertività della scrittura speculativa e filosofica, ma si nutre di una particolare sensibilità storica ed esistenziale. Narra il disagio e la fatica di vivere, ma vuole esorcizzare la solitudine che ogni uomo e ogni donna può percepire. Pavese ha scritto della sua estraneità al mondo, ma mentre la denunciava cercava contemporaneamente l’antidoto al suo tragico senso di isolamento. Il romanzo riporta uno sguardo particolare sulle cose del mondo, è legato a una soggettività narrata nella sua unicità. Chi scrive e pubblica vuole essere letto, cerca un interlocutore invisibile e sognato, a cui chiedere la speranza di una conversazione che vada avanti, che proceda. Il romanzo per me è una porta, una finestra, una piazza dove parlare con un altro immaginario. Senza sapere le risposte, ma con la speranza che insieme possiamo evolverci e migliorarci. Possiamo individuare una via comune, fermarci a leggere e a rileggere, chiudere il libro e riflettere, prendere un appunto, riscrivere una frase. Inizia così, con la scrittura, una conversazione che diventa infinita e rimanda a un cerchio, a una coralità transgenerazionale che attraversa il tempo e lo spazio.
Un’ultima domanda, anche se ne ho omesso mille: velocità ottusa e frenetica, virtualità prevaricante e insensata, tecnica ovunque, sempre e solo soldi, nichilismo inconsapevole, la letteratura ha ancora un peso in questo mondo?
Ti rispondo con un episodio che mi è capitato a scuola. Uno studente difficile e sfidante, figlio adottivo di genitori italiani, affascinato da oggetti costosi, spesso provocatore e scostante, mi aveva fatto capire in un tema che stava soffrendo, per i ricordi di un passato terribile nell’orfanatrofio del suo paese di origine. Dopo vari mesi di lavoro e di dialogo, di lettura ad alta voce dei poeti del Novecento, dove ho approfittato di ogni occasione per premiare il suo ascolto, la sua sensibilità e la sua intelligenza, ha iniziato un diario autobiografico per raccogliere tutti i suoi dolorosi ricordi di quand’era bambino. La scrittura lo ha trasformato, gli ha ridato serenità e coraggio, centralità e buona disposizione. Ha smesso di essere in sfida con gli altri. Non credo che la letteratura può cambiare il mondo, non ha per me un valore salvifico per la società, ma rappresenta uno specchio fondamentale per riflettere su noi stessi, per allargare il nostro sguardo, per trovare la propria identità, per aumentare la percezione della realtà, per sentire empaticamente gli altri attraverso la complessità delle storie, attraverso la fascinazione del linguaggio. Non ho mai smesso di leggere e di promuovere la lettura dei classici e dei contemporanei. La storia cammina lentamente e la letteratura registra lo spirito di ogni epoca. Leggere mi ha aiutato a distanziarmi dal presente per capire le trasformazioni in atto. Mi è servito per conoscere persone e mondi sconosciuti. La letteratura parla alle persone e a noi stessi, scopre il pozzo della nostra coscienza, come dice Pamuk. . Un lavoro paziente, rigoroso e lento, quasi mistico, che ogni scrittore compie seduto nella sua stanza. Poi sta ad ognuno di noi, al proprio coraggio e al proprio senso di responsabilità, leggere, attraverso i testi, i valori universali per cui vale la pena spendere un’intera vita.
A cura di Michele Salomone