Secondo le prime stime dell’osservatorio SVIMEZ a causa del Covid sono almeno 45mila gli addetti delle grandi aziende che lavorano in south working.
«100 treni Alta Velocità riempiti esclusivamente da quanti tornano dal Centro Nord al Sud»: è questa la metafora scelta da SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) per spiegare i risultati della prima indagine esplorativa condotta sul south working. Sì, perché secondo la ricerca realizzata da Datamining per conto di SVIMEZ, sono già 45 mila i lavoratori che, a partire dall’inizio della pandemia, lavorano in south working per grandi imprese del Centro-Nord. Ma questo dato sarebbe destinato a raggiungere quota 100mila se venissero aggiunti gli addetti delle piccole e medie imprese.
In poche parole, ciò che emerge dalle prime indagini sembrerebbe l’inizio di una sorta di ‘emigrazione di ritorno’. Un movimento quasi ‘di massa’ di buona parte di lavoratori meridionali che dalle regioni del Centro-Nord stanno rientrando, appunto, al Sud dello stivale.
Il south working, infatti, offre prospettive molto allettanti in teoria. Una fra tutte, l’irripetibile opportunità di rallentare l’emigrazione che le regioni meridionali hanno subìto negli ultimi vent’anni. Un periodo di tempo, questo, durante il quale a lasciare il Sud, sempre secondo SVIMEZ, sono stati 1 milione di italiani, trasferitisi al Centro-Nord per sfruttare le migliori opportunità lavorative.
«Poter offrire ai lavoratori meridionali occupati al Centro-Nord la possibilità di lavorare dai rispettivi territori di origine potrebbe costituire un inedito e quanto mai opportuno strumento per la riattivazione di quei processi di accumulazione di capitale umano da troppi anni bloccati per il Mezzogiorno e per le aree periferiche del Paese», ha evidenziato Svimez.
L’osservatorio sul south working
Al tempo del Covid-19, il south working si configura come una variante dello smart working. In sintesi, secondo la definizione che ne dà Svimez, si tratta di «lavoratori originari del Mezzogiorno ma occupati presso un’azienda del Centro-Nord o dell’estero rientrati nella loro regione di origine in virtù della possibilità di lavorare da remoto».
La scorsa estate avevamo già accennato alla volontà, da parte di Svimez, di strutturare un vero e proprio osservatorio su questo fenomeno sociale, data la grande portata dello stesso. Ebbene, ora l’osservatorio sul south working è realtà e, proprio come era stato immaginato, il capitolo del rapporto SVIMEZ 2020 dedicato al fenomeno è stato realizzato in collaborazione con South Working – Lavorare dal Sud, l’associazione fondata da Elena Militello, la giovane ricercatrice siciliana diventata south worker (ve ne abbiamo parlato qui).
Come sottolineato da Luca Bianchi, direttore di SVIMEZ, l’osservatorio per il south working «potrebbe rivelarsi un’interessante opportunità per interrompere i processi di de-accumulazione di capitale umano qualificato iniziati da un ventennio e che stanno irreversibilmente compromettendo lo sviluppo delle aree meridionali e di tutte le zone periferiche del Paese».
Una ricerca esplorativa sul south working
La prima ricerca sul south working ha preso in considerazione 150 grandi imprese con oltre 250 addetti che operano al Centro (23%) e al Nord (77%) nel settore manifatturiero (57%) e in quello dei servizi (43%). In questo contesto, sono all’incirca 45 mila gli addetti che lavorano in south working dalle regioni meridionali. Tuttavia, si stima che il numero salirebbe fino a sfiorare i 100 mila lavoratori se si aggiungessero anche i dati per le PMI. In questo senso, i dati che riguardano il ricorso allo smart working da parte delle aziende sono abbastanza chiari. Solo il 33,1% delle aziende ha dichiarato di essere refrattario allo smart working nel trimestre successivo al lockdown. Al contrario, il 27,3% delle aziende ha ricorso al lavoro da remoto per meno del 15% dei dipendenti, mentre il 32,5% ne ha usufruito al 50% e il 7,2% all’80% o più.
Quanto ai lavoratori, si è stimato che l’85,3% rientrerebbe volentieri al Sud con la garanzia di poter mantenere il proprio posto di lavoro da remoto. Da qui si evince la forte predisposizione, soprattutto da parte dei giovani laureati meridionali, a voler fare ritorno nelle proprie regioni di origine. Ma chi sono i south workers?
Chi sono i south workers?
Non sorprende che, su un campione di circa 2 mila lavoratori, circa l’80% degli intervistati abbia tra i 25 e i 40 anni. Una buona parte di essi possiede un titolo di studio di higher education, specialmente in ingegneria, economia e giurisprudenza. Secondo l’Associazione “South Working – Lavorare dal SUD”,* il 52,7% possiede una laurea magistrale, il 15% un master di II livello e il 7,2% un dottorato di ricerca. I lavoratori occuperebbero una posizione soprattutto nel settore terziario – ingegneria (22,6%), economia (15,9%), giurisprudenza (7,6%) – e nel settore bancario (7,6%). Inoltre, nel 63% dei casi parliamo di lavoratori che hanno un contratto a tempo indeterminato.
Vantaggi e svantaggi del south working
Secondo il sondaggio esplorativo SVIMEZ, una buona percentuale delle aziende definisce la maggiore flessibilità negli orari di lavoro (40,4%) e la riduzione dei costi fissi delle sedi fisiche (38,4%) come i due principali vantaggi del south working. Inoltre, il 28,7% parla di una maggiore motivazione sul lavoro da parte dei dipendenti, alla quale si associa una maggiore produttività (26,8%). Tuttavia, è innegabile che il south working imponga una certa perdita di controllo da parte dell’azienda sui propri dipendenti (36,3%), per non parlare della mole di investimenti alla quale l’azienda deve far fronte (29,1%), soprattutto se si parla di sicurezza informatica (28,6%).
La stessa indagine esplorativa ha sondato l’opinione dei lavoratori che, in generale, si dicono piuttosto soddisfatti del south working, soprattutto se si considera il minore costo della vita (81%) e il basso costo di un’abitazione (69%). Tuttavia, i vantaggi del lavoro da remoto arrivano insieme agli svantaggi che esso comporta. Per esempio, l’80% del campione intervistato esprime un parere molto negativo rispetto all’offerta dei servizi sanitari, il 75% considera la qualità dei trasporti come uno svantaggio molto significativo e il 72% lamenta la non idoneità dei servizi per la famiglia.
Mai come ora, quindi, risulta essenziale porsi una domanda. Sempre la stessa, poi. Sebbene il south working si stia configurando come una concreta opportunità lavorativa per migliaia di persone, il nostro sistema-Paese se lo può permettere? A supportare l’incremento del lavoro da remoto e, in particolare, del south working, ci sarebbe bisogno di strumenti di policy regionali atti a rafforzare quei settori che ancora vengono percepiti come svantaggiosi, tanto dalle aziende quanto dai lavoratori.
Quali le policy sulle quali intervenire?
«Per realizzare questa nuova opportunità – suggerisce il rapporto SVIMEZ – è tuttavia indispensabile costruire intorno ad essa una politica di attrazione di competenze con un pacchetto di interventi concentrato su quattro cluster:
1) incentivi di tipo fiscale e contributivo;
2) creazione di spazi di co-working;
3) investimenti sull’offerta di servizi alle famiglie (asili nido, tempo pieno, servizi sanitari);
4) infrastrutture digitali diffuse in grado di colmare il gap Nord/Sud e tra aree urbane e periferiche».**
Si tratta, quindi, di raggiungere i migliori compromessi che possano soddisfare le esigenze espresse dalle imprese, coniugandole con le necessità dei lavoratori. Solo in questo modo potremmo costruire una rete lavorativa innovativa con effetti potenzialmente molto positivi sullo sviluppo socio-economico del Meridione.
In particolare, il rapporto 2020 suggerisce di concentrare gli interventi su un target specifico di lavoratori, evidenziati come giovani laureati del Sud tra i 25 e i 34 anni, che si sono trasferiti al Centro-Nord per sfruttare migliori possibilità professionali. Sulla base dei dati ISTAT, infatti, Svimez parla potenzialmente di 60 mila lavoratori.
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*L’associazione “South Working – Lavorare dal Sud” conta circa 7.500 iscritti sulla pagina Facebook. Il suo pubblico mensile supera quota 30.000. Sono circa 2.400 gli iscritti alla comunità peer-to-peer su Facebook.
** Secondo i dati raccolti, il 46% delle aziende chiede la riduzione dei contributi per chi lavora in south working, il 34% il credito d’imposta una tantum per postazione attivata in south working, il 25% la diminuzione dell’IRAP in percentuale delle postazioni south working attivate, il 17% la creazione di aree di co-working.
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Fonte dei dati:
Comunicato Svimez – ricerca sui south workers.
Rapporto Svimez 2020 (sintesi).
Svimez (2020). Da Nord verso Sud: le opportunità del South working. Ricerca realizzata da SVIMEZ in collaborazione con Datamining e l’Associazione South Working (lavorare da Sud). Disponibile online qui.
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