Quanto sta emergendo in queste settimane in merito alle condizioni in cui versano i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere è un campanello d’allarme che ci permette di riesumare una questione tutt’altro che risolta: la galera possiede ancora la sua funzione riabilitativa o si è trasformata in una bolgia infernale in cui i peccatori sono destinati a essere puniti rinunciando alla speranza di poter espiare le proprie colpe e diventare persone migliori?
L’ultimo orrore che è balzato agli onori della cronaca proviene dalla cella 13 del Reparto Nilo: come ricostruito dalle indagini, uno dei detenuti è stato accerchiato e percosso con violenza dagli agenti penitenziari tanto a mani nude quanto con i manganelli. «Oggi appartieni a me, sono io che comando, sono lo Stato. Comando io oggi» è una delle frasi che il malcapitato si è sentito dire prima di essere trascinato sulle scale adiacenti l’ingresso ed essere vessato nuovamente prima di tornare in cella e raggiungere gli altri internati, sfinito e sanguinante.
Proprio come una luce che squarcia l’oscurità che sembra impregnare ogni centimetro di quell’ambiente, così uno dei detenuti ha chiesto agli agenti dell’acqua per aiutare il compagno ferito. Un atto di gentilezza che però si è infranto presto di fronte alla spietatezza dell’interlocutore che gli ha risposto: «Beviti l’acqua del cesso».
In un quadro del genere, il confine tra ‘buoni’ e ‘cattivi’ diventa talmente labile da fondere entrambe le fazioni, rendendo difficile saperle discernere.