Per Confcommercio il Meridione perde 1,6 milioni di giovani, e resta bloccato in un circolo vizioso con condizioni di lavoro e vita demoralizzanti.
Pigri. Fannulloni. Choosy. Bamboccioni. Sono stati chiamati in tanti modi, i giovani. Ancora peggio se del Meridione. Sembra evidente ai più che ‘i giovani preferiscono restare seduti sui divani’, piuttosto che andare a lavorare. Ma, se non restano immobili e vanno via, semplicemente li ‘incolpiamo’ o ‘compatiamo’ rispettivamente per aver voluto o dovuto scegliere di emigrare, in un meccanismo perverso in cui la migrazione è sempre meno una scelta, e sempre più una necessità.
La verità, però, è che a volte rischiamo di cadere nel luogo comune, generalizzando ed evitando di osservare la realtà per quella che è: un intricato insieme di variabili che definiscono scelte personali nonché l’andamento socio-economico di un Paese. Sarebbe, infatti, riduttivo parlare semplicemente di giovani che non vogliono lavorare o che sono costretti ad andare via, senza prendere in considerazione le variabili di contesto, come le condizioni di lavoro che spesso bisogna accettare, le opportunità, i salari, e i modelli economico-sociali promossi dalla società.
Quindi, osserviamo cosa suggeriscono i dati.
I cervelli in fuga
Il popolo italiano è sempre stato un po’ ‘emigrante’ e la fuga dei cervelli non è di certo una novità. Mobilità territoriale e migrazione interna ormai sono una caratteristica del modus vivendi dei giovani italiani che sono alla ricerca di (migliori) opportunità e stipendi (più alti). Prima dello scoppio della pandemia, il rapporto SVIMEZ (2019) aveva già segnalato l’incremento del fenomeno dell’emigrazione dal Sud al Nord e anche verso l’estero. Negli ultimi anni questi flussi hanno interessato giovani con alto livello di istruzione. Secondo i dati Istat relativi alla “nuova emigrazione” verso l’estero, sono quasi 900mila gli italiani che hanno lasciato l’Italia negli ultimi dieci anni, il 23% dei quali in possesso almeno di una laurea. Un tale saldo in negativo risulta pesantissimo soprattutto per le regioni meridionali.
Perché? L’emigrazione è causa e conseguenza di una situazione economico-sociale disequilibrata. Vediamo alcuni dati dell’indagine di Confcommercio.
Le analisi di Confcommercio
Per Confcommercio il Meridione rischia il codice rosso. Nel lungo periodo, infatti, l’emigrazione pesa principalmente sulla popolazione meridionale: dal 1995 al 2021 il Sud ha perso ben 1,6 milioni di giovani.
Fonte: Rielaborazione in formato grafico di dati pubblicati da Confcommercio, elaborazione USC su dati ISTAT.
Secondo quanto riportato dall’Istat, la popolazione italiana è generalmente in diminuzione, e la gran parte proviene proprio dal Sud. È evidente, infatti, come il calo più significativo interessi il Meridione, che passa dal 36,3% della popolazione (1995) al 33,8% (2021), a fronte di un aumento della popolazione registrato in tutte le altre macro-aree italiane (primo grafico). Ancora più preoccupante è il significativo calo di popolazione giovanissima under 19 (secondo grafico), che nel Mezzogiorno passa dal 24,7% nel 1995 al 17,1% nel 2021.
Le condizioni e le prospettive di lavoro e di vita al Sud sarebbero la principale causa del progressivo aumento del gap tra le regioni meridionali e le altre macro-aree italiane, poiché fortemente demotivanti soprattutto per i giovani.
Il calo del peso economico del Meridione
È chiaro che il discorso sull’emigrazione è intrinsecamente legato al ritardo economico che da sempre caratterizza il Sud. Secondo Confcommercio, il calo del peso del PIL del Meridione sulla media italiana è da attribuire a due fattori: in primo luogo la sempre minore produttività dei fattori nella loro totalità, il che a sua volta deriva dal divario Sud-Nord. In secondo luogo, il calo degli occupati, che è strettamente correlato alla diminuzione della popolazione residente nel Mezzogiorno.
La fotografia che viene così scattata è, purtroppo, molto negativa. Un evidente circolo vizioso nel quale pesa sempre di meno la ricchezza prodotta dal Mezzogiorno rispetto all’Italia. Questo valore, infatti, è passato da poco più del 24% nel 1995 a poco più del 22% nel 2020. Parallelamente, il PIL pro capite mantiene il suo stabile gap, attestandosi a circa la metà di quello del Nord, risultando nel 2020 più ampio rispetto al 1995.
Rielaborazione in formato grafico di dati pubblicati da Confcommercio, elaborazione USC su dati ISTAT.
Cause e (possibili) soluzioni
Secondo Confcommercio, mettere in pratica politiche di riequilibrio territoriale potrebbe essere una soluzione. Tuttavia, ci si scontra con altro fattore interdipendente: il livello di occupazione. Basti pensare che, considerando la variazione degli occupati nel periodo di tempo considerato, se in Italia si registra una crescita del 16,4% delle unità standard di lavoro, l’occupazione al Sud cresce solo di poco più di quattro punti.
Le analisi di Confcommercio identificherebbero
“nella burocrazia, nella micro-illegalità diffusa, nell’accessibilità insufficiente e nella comparativamente minore qualità del capitale umano, le spiegazioni di un fenomeno strutturale che comprime il prodotto pro capite in modo permanente. Se nel Sud questi difetti fossero ridotti in modo tale da portarne le dotazioni ai livelli osservati nelle migliori regioni italiane, il prodotto lordo meridionale crescerebbe di oltre il 20% alla fine dell’aggiustamento di lungo periodo, rispetto a uno scenario senza interventi.”
Prospettive per il futuro?
Prima della crisi del 2008 il Meridione già soffriva un’arretratezza rispetto al resto dell’Italia. Nei dieci anni successivi il divario è raddoppiato. Chiaramente l’arrivo della pandemia ha arrestato le flebili prospettive di ripresa. Infatti, se da un lato i dati Istat suggeriscono che la crisi pandemica e l’arresto delle attività produttive abbiano avuto un impatto meno significativo al Sud rispetto al Centro-Nord, è probabile aspettarsi una ripresa più lenta e frammentata del Meridione, il che probabilmente andrà ad esacerbare il divario tra le regioni (ne ha parlato SVIMEZ).
Si teme, inoltre, che l’allocazione delle risorse non sia bilanciata nel dopo pandemia, e che il Sud non riesca a sfruttare con efficacia e consapevolezza quelle che saranno messe a sua disposizione. Soprattutto si rischia anche in campo turistico, principale motore per l’economia meridionale. Infatti, nel 2020 nemmeno i dati sull’incidenza del turismo straniero sono a favore del Mezzogiorno. L’incidenza, secondo Confcommercio, passa da 2,3 (2019) a 1 (2020) per il Meridione, con una brusca caduta soprattutto per la Campania (3,3 nel 2019; 1,1 nel 2020).
La poca capacità reattiva dell’economia meridionale, probabilmente, impatterà negativamente anche sulla disoccupazione, già piaga del Sud. Tutto ciò potrebbe rafforzare un annoso e irritante circolo vizioso, rischiando di lasciare alla deriva un’intera generazione di giovani dal grande potenziale ma dalle scarse possibilità.
Povertà ed emigrazione
Secondo l’elaborazione dati Istat condivisa da will_ita, nel 2020 l’occupazione giovanile è ulteriormente calata. In particolare, si è registrato un -2,6% dell’occupazione per i giovani tra i 15 e i 24 anni. Per di più, nel 2020 quasi il 12% della fascia 18-34 risulta essere in povertà assoluta, a fronte di poco meno del 6% della fascia over 65.
In poche parole i dati ci mostrano chiaramente un disastro generazionale. I millennials, che dovrebbero essere i promotori di innovazione, carichi di ottimismo, proiettati al futuro, sono in realtà la fascia della popolazione, in generale, più colpita. Doppiamente più poveri dei propri genitori e nonni.
La quotidianità della vita della maggior parte dei giovani italiani è fatta di contratti sempre più precari e meno stabili, principalmente a tempo determinato, con stipendi inferiori rispetto al passato e a molti Paesi europei. Reduci da una crisi economica mondiale, nel pieno di una pandemia che lascia il mondo ancora incapace di scommettere sul futuro, i giovani si trovano catapultati in un’Italia piena di incertezze. Quindi emigrano, lasciando le aree economicamente più deboli del Paese che, di conseguenza, faticano a rafforzare il proprio tessuto economico-sociale e ad essere attrattive per gli stessi giovani, il che inevitabilmente rafforza l’emigrazione.
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