Il 28 maggio, nella Chiesa di San Salvatore a Corte di Capua, si è tenuto il penultimo incontro dell’evento culturale “Capua, il Luogo della Lingua Festival”, giunto alla sua 17sima edizione sotto la direzione artistica di Giuseppe Bellone. L’incontro, dal titolo “La ‘posologia’ delle parole”, ha visto il coinvolgimento della scrittrice e poetessa Elisa Ruotolo in un dialogo con lo scrittore Cesare Cuscianna, il tutto moderato dall’architetto Raffaele Cutillo. L’autrice ha presentato e discusso la sua ultima opera: “Corpo di pane”, edito da nottetempo.
Elisa Ruotolo è originaria di Santa Maria a Vico, in provincia di Caserta. Lineamenti delicati e pacatezza nei modi sono le prime cose che colpiscono in lei, ma quest’anima sensibile è capace di una potenza espressiva che non lascia indifferenti. Elisa insegna italiano e storia nelle scuole superiori ed ha già all’attivo varie opere: tra queste, “Ho rubato la pioggia”, la sua prima antologia di racconti, vincitore del Premio “Renato Fucini”; due romanzi “Ovunque, proteggici” e “Quel luogo a me proibito”; il volume illustrato “Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi: il dono della vita alle parole”, dedicato alla poetessa Antonia Pozzi; la raccolta poetica “Corpo di pane”, sua ultima opera, tradotta in spagnolo dall’Istituto Italiano di Cultura di Madrid. Inoltre, ha curato per Interno Poesie il volume “Mia vita cara. Cento poesie d’amore e silenzio” di Antonia Pozzi. Alcune delle sue opere sono state tradotte in Francia e Stati Uniti e figurano, come finaliste, in importanti premi internazionali. Artista versatile e consapevole del mondo che la circonda, Elisa è capace di sondare le profondità della scrittura, di carpirne i segreti e farli propri. Allo stesso tempo, padroneggia la leggerezza della poesia, i cui versi fuggevoli lei, anima così limpida, riesce a trattenere tra le sue dita e, attraverso la sua abile penna, a dare loro forma sulla carta.
Elisa Ruotolo
Moderato dalla voce di Raffaele Cutillo, quest’incontro letterario si apre con la presentazione del libro di Elisa Ruotolo, “Corpo di pane”, diviso in due parti: “Posologia del dolore” e “Posologia dell’amore”. Da qui, si desume il titolo di questo evento.
Ed é proprio con un monito sull’importanza del dolore che si apre quest’opera potente:
“Usatelo bene, il vostro dolore
ché non diventi mercanzia
né attiri corvi al pasto della pietà.
Badate di nasconderlo con cura
allora procuratevi bende pesanti
cerotti che tengano
stampelle che fingano passi
medicamenti di carità.” (pp. 11)
Un’opera nel cui linguaggio Elisa sembra voler mescolare il sacro e il quotidiano, sconfinanti l’uno nell’altro. Sono versi che ci ricordano che il dolore non è mai fine a se stesso e che, se non lo si può evitare, si può almeno giungere ad averne consapevolezza e farne un uso migliore. Il dolore è qualcosa di intimo e privato, ci racconta Elisa, e per tale motivo va mostrato a pochi. Nella prima parte della sua opera, il dolore è un’entità tangibile che si fonde col corpo e l’unico modo per ottenere un po’ di sollievo sembra essere l’annullamento di sé: «Non resterà nulla di mio al mondo / e questo è pace».
Ma la seconda parte, quella dedicata alla “Posologia dell’amore”, ci apre forse ad una nuova consapevolezza.
“La crudeltà
la leggerezza
il disagio
d’avere un cuore capace d’andare in pezzi
senza spezzarsi.” (pp. 74)
La consapevolezza che solo l’amore consente il superamento del dolore.
Questo scambio tra autori si apre con un componimento della Ruotolo, letto dalla voce di Cutillo, il quale – come noi altri ascoltatori – resta tramortito dalla semplicità e dalla potenza evocativa di questi pochi versi che, nella loro immediatezza, si scavano un sentiero tra i nostri pensieri e vi permangono.
“Non ho nulla.
E sono ciò che possiedo.
Vorrei essere utile
-l’anello che salva il dito dal taglio
-l’errore nella preghiera che fa sorridere Dio
-la carogna dell’animale a farti sentire vivo
e l’addio che accetti
senza rammarico.” (pp. 25)
Quel lapidario “Non ho nulla” che, solitario, si staglia nel primo verso e sembra una costante nelle opere di Elisa, come se ogni volta ribadisse non ho nulla, se non la mia arte che è rappresentazione di tutta me stessa. Un’arte che questa artista delle parole ci fa l’onore e il piacere di mettere al nostro servizio.
Quel verso iniziale sembra inoltre riecheggiare l’incipit di un’altra sua notevole opera, “Quel luogo a me proibito”, dove l’autrice ribadisce che, di suo, possiede ben poco:
“Tutto è cominciato prima di me. Vorrei poter vantare un inizio solo mio, invece mi rendo conto che di privato possiedo ben poco. Ogni cosa che mi riguarda è stata eternamente condivisa, fatta in brani e poi spartita.”
Eppure, da ciò che Elisa chiama “pochezza o praticamente nulla”, nascono frasi di una tale forza espressiva, da lasciare svuotato il lettore. Sono versi di una semplicità disarmante, al che Cutillo, il moderatore di questo evento, chiede alla nostra autrice da dove provengono e come prendono forma nella poesia:
“Non so bene da dove vengano le parole e come vanno a finire nelle poesie. La poesia procede per illuminazione, quindi non si sa mai quando arriverà. Ma vi è una cosa che mi accompagna da sempre ed è la consapevolezza del voler scomparire. Sia quando scrivo poesia che quando racconto, quindi quando mi travesto e divento altro, io non sto tentando altro che una sparizione. La scrittura di questi versi credo sia derivata da questo bisogno che mi accompagna da sempre, ma anche dal bisogno di mettere insieme queste due cose: scrittura e sparizione. Quando io cerco di spiegare cosa provo quando scrivo e cosa provo a fare, ricordo una cosa che mi è capitata da piccola. Quando ero bambina, avevamo in casa dei coltelli che dovevano essere periodicamente limati per essere utili nel taglio. Io e mio padre, allora, mettevamo questi coltelli in un giornale e li portavamo dalla persona che li avrebbe riparati. Questa persona mi colpiva, ogni volta, perché aveva le mani cosparse di tagli, dunque notavo il sangue, la sofferenza del suo lavoro. Ma appena questi prendeva i coltelli per migliorarne la lama, se ne sprigionavano scintille. Allora, svanivano i tagli e compariva una sorta di allegria. Quando scrivo, io ricordo sempre quella scena e tento di tenere insieme queste due cose: il taglio e la luce, il dolore e il suo contrario. Questa raccolta di poesie tenta di fare questo, per questo è divisa in due parti: la Posologia del dolore e la Posologia dell’amore. È stato l’unico modo che io ho trovato, ad un certo punto della mia vita, per provare a rendere in parole qualcosa che avevo dentro, ma che non riuscivo ad esternare.”
Personalità da sempre legata alla sua terra, alle sue origini e alle sue tradizioni, Elisa Ruotolo è capace di mantenersi fedele alle sue radici e, allo stesso tempo, di distaccarsi, nel corso del suo processo creativo, da se stessa ed immergersi nelle profondità della sua scrittura. Impossibile, come afferma lei stessa, che elementi autobiografici non vengano a mescolarsi nei suoi racconti e nella sua poesia. Ancor più, in quanto la scrittura le consente nascondiglio e protezione per le sue confessioni più intime poiché “la scrittura mi consente di trasformare me stessa in altro”. Eppure, nonostante l’intimità della sua scrittura, la Ruotolo ammette comunque un distacco poiché “non è mai possibile trasferire esattamente e in modo diretto il vissuto in un testo narrativo”. Viene a crearsi una dualità quasi antitetica nella sua scrittura, per cui l’autrice è sia presente in ciò che scrive, ma è al contempo anche altro da ciò che scrive sulla carta.
Non è da tutti riuscire a passare dalla prosa alla poesia e viceversa, ma Elisa lo fa e ci riesce con molta naturalezza. Per lei “la poesia è un’illuminazione, è istantanea e non si sa bene quando finirà”. La poesia è per lei un processo frammentario, di cui si conosce l’inizio, ma non la fine. La poesia segue una sua logica temporale e non obbedisce né alla volontà né all’ispirazione. È la sola padrona di se stessa e decide lei se e quando tacere e quando lasciarsi ascoltare.
La narrativa è un processo molto più continuo, prosegue l’autrice. Una storia ha una sua continuità, sembra quasi scriversi da sé. È nella volontà della storia stessa giungere ad una conclusione.
Ciononostante, che si tratti di prosa o di poesia, l’amore che questa incredibile scrittrice prova per le parole non muta, è forte allo stesso modo, tanto da essere un sentimento quasi “materno”.
Il posto da cui provengono le parole, tanto amate da Elisa, è estraneo e inaccessibile persino a lei stessa. Sono le parole che scelgono di mostrarsi e di farsi afferrare da questo spirito delicato tanto affine all’arte. L’arte chiama altra arte.
“Ogni volta che scrivo, io provo a battere la morte. La scrittura è un esercizio rispetto alla fine. Ogni volta che concludo una storia, è come se un po’ morissi, lo stesso ogni volta che concludo un verso o una poesia. E penso che noi diamo da vivere anche al lettore. È faticoso scrivere perché ti costringe ad entrare in un modo che non è tuo e poi a venirne fuori. È come una promessa di vita, ma è anche una certezza di fine.”
Quella di Elisa è una scrittura che svuota e poi riempie, che lascia senza fiato e poi appaga. I suoi versi, le sue parole sono al contempo ben piantati nel presente e collocati in un passato senza tempo. Le sue storie ci riportano indietro nel tempo, verso un’infanzia perduta e, chissà, forse mai ritrovata. Perché, non poche volte, la difficoltà sta proprio nel non riuscire a perdersi poiché, per ritrovarsi, occorre necessariamente perdere se stessi.