Il salmone che mangiamo, in realtà non è arancione, ma colorato chimicamente perché assuma quella tipica colorazione.
È questa una delle sconvolgenti verità che il documentario “Artifishal” (qui il link al trailer) smaschera per il suo pubblico.
La colorazione tipica del salmone selvatico è, infatti, legata alla sua alimentazione: prevalentemente gamberi e krill.
Quello che solitamente arriva sulle nostre tavole, però, è solitamente salmone d’allevamento – o, come viene rinominato nel documentario, salmone da coltivazione.
Il salmone d’allevamento non si nutre né di gamberi né di krill, ma solo di mangimi animali o di soia ogm: di conseguenza, la loro carne risulta essere grigia e, per questo, viene colorata artificialmente a pochi giorni dalla macellazione.
Il documentario denuncia anche il metodo in cui i salmoni vengono allevati.
Le grosse gabbie immerse nel mare in cui i salmoni d’allevamento sono costretti a vivere rappresentano un pericolo per loro stessi perché la loro condizione di vita è assolutamente pessima, minacciata da altri animali più piccoli come il pidocchio di mare, che li mangia praticamente vivi, e dall’acqua sporca di residui di cibo ed escrementi con la quale sono a contatto.
Ma la verità è che i salmoni d’allevamento rappresentano una minaccia anche per i salmoni selvatici.
Le gabbie dove i salmoni sono rinchiusi non sono particolarmente stabili, per cui è assolutamente possibile che alcuni di essi possano sfuggire al controllo e andare a fecondare o deporre uova insieme ai salmoni selvatici, creando una specie meticcia.
Il rischio è quello dell’inquinamento genetico.
È per questo che la quantità di salmoni selvaggi negli ultimi anni è drasticamente diminuita: in Islanda, oggi, ci sono circa 500mila salmoni selvaggi, mentre solo 40 anni fa ce n’erano più di un milione e mezzo.
La soluzione, in realtà, esiste.
Si tratterebbe di eliminare gli allevamenti di salmone odierni e di stabilire un nuovo metodo: quello “close-contained” che eliminerebbe almeno i problemi legati all’inquinamento genetico e quello del mare legato agli allevamenti in acqua.
La domanda che dobbiamo porci è se vogliamo davvero che resista qualcosa di selvaggio in natura. O se preferiamo plasmare la natura perché diventi sempre più a portata d’uomo.